Un orientamento non solo predittivo e certificativo

Un orientamento non solo predittivo e certificativo

Salvatore Soresi
Università di Padova

Si ringrazia la Rivista Istruzione per l’autorizzazione a condividere l’articolo ‘Un orientamento non solo predittivo e certificativo’ (pubblicato nel n.4/2020) con i lettori e le lettrici della Newsletter SIO ‘La parola all’orientamento’

Un ‘diluvio’ di parole e di documenti.
In questi ultimi tempi si sente parlare più spesso di quanto avveniva in passato, di orientamento e di lavoro. Bene, anzi, molto bene! Ma attenzione a chi e a come ne parla, e a quando e dove se ne parla, in quanto non tutti hanno le competenze per farlo e non sempre lo si fa nei luoghi e nei tempi opportuni. Lo si fa troppo spesso solo all’inizio di ogni anno solare, in previsione delle iscrizioni alle scuole secondarie di secondo grado, da formalizzare obbligatoriamente on line, con parole ed espressioni che, dopo periodi di latenza, compaiono improvvisamente e con un’elevata frequenza nelle narrazioni delle scuole, di molte famiglie e, persino, in molti talk show.

Mi riferisco, in particolare, a parole come scelte, opportunità e possibilità, interessi e attitudini, aspirazioni e risorse, punti di forza e di debolezza, transizioni, futuro, competenze, profili, bilanci, consigli che, se afferenti all’orientamento, dovrebbero appartenere al vocabolario di uno specifico linguaggio scientifico, a quello, cioè, delle discipline dell’orientamento che dai tempi di Parson[1] e da oltre un secolo studiano le scelte e le progettazioni professionali.

Un lessico amministrativo e burocratico Queste parole, purtroppo, vengono usate spesso ‘all’ultimo momento’, quando non c’è più il tempo per approfondire, riflettere, per ricercarne i riferimenti teorici e metodologici, contribuendo così ad aumentare il diffondersi di luoghi comuni, di superficialità e di qualunquismi. Esse inoltre, connettendosi l’una all’altra in modo più o meno casuale e in assenza di una trama scientifica ben precisa, diffondono anche nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie visioni e linguaggi che tendono ad allontanarsi gradatamente, ma inesorabilmente, da quelli psicopedagogici e sociali, per avvicinarsi sempre più a quelli economico-aziendali.

Tutto ciò sembra accadere anche in ossequio agli inviti espliciti di una miriade di documenti contenenti la parola orientamento (considerando la pur breve storia della nostra Repubblica ne ho contate oltre un centinaio!) che le nostre istituzioni, comprese quelle scolastiche, diffondono con Linee guida, siti web, Raccomandazioni, spot pubblicitari, kit e vademecum, da utilizzare proprio alla fine di percorsi formativi, nei passaggi da una scuola all’altra, o nelle fasi di ricerca di un’occupazione. Questi documenti di solito scimmiottano quelli prettamente amministrativo-burocratici di molti organismi europei e internazionali e di agenzie del lavoro e dello sviluppo economico.

L’ascensore sociale si è bloccato
Se è questo l’orientamento che viene realizzato, è ingenuo pensare che possa riuscire a essere una cosa seria, e, soprattutto, socialmente rilevante nei confronti, in particolare, di quella moltitudine di studentesse e studenti che si vedono ‘destinati’ a ‘scelte’ formative e professionali poco dignitose e poco soddisfacenti. Sto pensando:

– ai milioni di Neet e di Elet (ai giovani che non studiano e non lavorano e a quelli che anni che dopo la scuola secondaria di I grado non si sono avviati a nessun tipo di tipo di formazione professionale) che l’orientamento e i servizi per l’impiego non sono in grado di intercettare[2];

– al fenomeno per cui lo status socio economico di provenienza continua a influenzare la quantità di istruzione che gli adolescenti si aspettano dopo la scuola dell’obbligo, la scelta dell’occupazione e la tendenza a preferire o meno professioni tradizionalmente legate al genere (Rojewski e Kim);

– all’influenza che lo status socio-culturale dei genitori continua a esercitare sulle aspirazioni dei figli, tanto che il livello d’istruzione dei primi sembra essere il miglior indicatore degli interessi, della riuscita scolastica e della realizzazione professionale dei secondi (Schön);

Le pratiche di orientamento sono ininfluenti?
Sin dai tempi della Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana e di Le vestali della classe media’ di M. Barbagli e M. Dei, sono state evidenziate le relazioni esistenti tra le variabili sociali di provenienza, il successo nell’apprendimento e le ‘scelte’ successive alla frequenza della scuola dell’obbligo, tanto che molti ancor oggi, sostengono che la nostra scuola, quella che potrebbe contribuire al ‘riscatto’ e alla mobilità sociale, continua a caratterizzarsi come ‘una scuola di classe’ e l’orientamento a ridursi molto spesso a pratica di certificazione delle disuguaglianze.

A tal proposito il sociologo M. Romito[3], senza mezzi termini, afferma che le diseguaglianze educative vengono di fatto confermate, consolidate e accentuate dai consigli di orientamento e da tutti gli attori istituzionali che all’interno delle scuole si occupano di transizione. Anche se in modo meno esplicito e apparentemente più neutrale, è quanto d’altra parte ritengono sia l’Invalsi quando continua a certificare preoccupanti ritardi, abbandoni e dispersioni scolastiche, e ad affermare che il capitale culturale ed economico-sociale dei genitori si associa al rendimento e alle scelte scolastico-professionali dei figli, sia il nostro MIUR costretto a invocare addirittura ‘Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa’.

La gran parte di coloro che si dichiarano preoccupati per questo stato di cose, in modo più o meno esplicito, chiama in ballo anche l’orientamento considerandolo, di volta in volta e nel migliore dei casi, irrilevante nei confronti dei suddetti fenomeni. In effetti anche i ricercatori del Larios, proponendo alle scuole il progetto di orientamento che illustrerò verso la fine di questo contributo, hanno constatato che il 32,4% degli studenti delle secondarie di II grado ritiene che non riuscirà a svolgere l’ambita professione ideale (sono soprattutto quelli di genere maschile ad affermarlo – il 36,2% vs il 28,8%; p<.004) e che almeno il 10% degli studenti dichiara che sarà molto difficile per loro accedere a un lavoro dignitoso. Tra questi non abbiamo trovato studenti provenienti da contesti socio-economici elevati: provengono tutti da situazioni ‘nazionali’ di svantaggio e da contesti di immigrazione, per i quali si prognostica un inserimento in ambienti lavorativi, se non proprio illegali e indecenti, sicuramente poco soddisfacenti.

Un approccio teorico e operativo differente
Ma l’orientamento può ancora fare dell’altro? Può perseguire finalità educative e preventive?
Certamente sì, ma a determinate condizioni. Per fare dell’altro l’orientamento deve essere rigorosamente programmato e realizzato precocemente da insegnanti e da professionisti adeguatamente formati per tale obiettivo e non può essere lasciato alle iniziative dei singoli istituti e di alcuni docenti. Anche quelli autenticamente interessati, mancando una specifica formazione in materia, si sono lasciati purtroppo e spesso attrarre da ‘visioni’, anche ministeriali, che li hanno portati a realizzare azioni e progetti il più delle volte inefficaci e poco rigorosi da un punto di vista teorico e metodologico. È ciò che da tempo lamentano molti studiosi, e non solo italiani, di orientamento. Da noi, ad esempio, M. Viglietti già molti anni fa affermava che “toccherà, principalmente alle autorità scolastiche locali promuovere per gli insegnanti seri incontri di formazione (non di aggiornamento semplicemente), di carattere teorico e sperimentale, mediante corsi residenziali (spesati e retribuiti) in opportuni periodi dell’anno scolastico, appoggiandosi alle istituzioni universitarie, agli ordini professionali e ai Centri riconosciuti che da anni operano in questo campo”. Tutto questo, continuava Viglietti, “implica però un cambiamento di mentalità teorico-operativa a cui gli insegnanti in genere, diversamente da quel che si può credere, sono disponibili qualora si renda effettivamente operante la triplice condizione di avere un tempo scolastico adeguato per l’orientamento, di poter acquisire (…) una formazione specifica ufficialmente riconosciuta, e di avere il sostegno e la collaborazione attiva dell’autorità scolastica e delle famiglie”[4].

Ancor prima, senza tirare in ballo la letteratura internazionale del vocational guidance e della career education[5] basti ricordare che in Italia già nel 1976 Scurati, nel primo e multidisciplinare volume[6] dedicato in Italia all’orientamento, affermava che “gli organismi scolastici sono chiamati ad assumere responsabilità sempre più incisive, ma che per evitare che ci si riduca a mere operazioni amministrativo-burocratiche di accompagnamento delle persone nelle cosiddette fasi di transizione, da una scuola all’altra, dalla scuola al lavoro, dal lavoro al lavoro, è necessario ‘un preciso e competente aiuto (…) in quanto in un mondo in perenne equilibrio instabile… scegliere e determinarsi rappresenta un duro e difficile compito e impegno”.

I laboratori di orientamento per riflettere e imparare ad aspirare
L’orientamento, invece di certificare e consigliare, potrebbe pertanto fare dell’altro, proporre e realizzare, interventi preventivi, educativi e precoci, tanti laboratori di riflessività a proposito dei significati del lavoro, del diritto di tutti ad aspirare a un futuro di qualità, dedicandosi soprattutto ai più meritevoli di attenzione, a quelli, cioè, con minori risorse e maggiormente a rischio di emarginazione e sfruttamento. Nei laboratori di orientamento previsti dal progetto “Stay hungry, stay foolish, ma anche stay curious, visionary, passionate…”[7] del Larios, ad esempio, particolare spazio viene riservato all’insegnamento-apprendimento dell’aspirazione, a come si promuove, sostiene e realizza. Se un tempo l’orientamento richiedeva di pensare al futuro in modo razionale, riteniamo che nel presente si debbano assumere prospettive diverse, anche sulla scia di quanto indicano studi recenti di psicologia dell’orientamento, per cui:

  • persone appartenenti a fasce deboli della popolazione hanno anche restrizioni a proposito delle aspirazioni con le quali guardano al futuro (Arnold e Rondall, Barnes e Brown, Ginevra et al., Soresi);
  • le aspirazioni si associano all’idea di giustizia e al rispetto dei diritti umani, che richiedono partecipazione attiva e adesione alle politiche dell’inclusione. Il desiderare una buona qualità di vita rappresenta di fatto la più importante aspirazione per la maggioranza delle persone (Casas, 2017), ma il nutrire delle aspirazioni contiene anche la probabilità di comportamenti devianti e delinquenziali (Mahler et al., 2017).

Le aspirazioni al centro del processo orientativo
Altri contributi provengono poi dalla sociologia e dall’antropologia. Un autore al quale da un po’ il Larios si sta ispirando nei progetti di orientamento è Appadurai[8], secondo il quale le aspirazioni sarebbero essenzialmente la capacità di orientarsi in modo attivo nei confronti del futuro. Chi fa orientamento dovrebbe occuparsi massicciamente di aspirazioni proprio per questo. Le aspirazioni NON maturano nella solitudine o nell’isolamento, hanno bisogno di interazioni tra persone e contesti, richiedono partecipazione, pazienza e volontà di manifestare assieme ad altri contro le ingiustizie e in difesa per i propri diritti. Ancora, e sempre secondo Appadurai, le aspirazioni nutrono la democrazia e incrementano la speranza di poter modificare le proprie prospettive di vita e in particolare delle persone a rischio di espulsione ed emarginazione.

Una “economia della ciambella”
Per avere successo insegnando ad aspirare, l’educazione e l’orientamento debbono proporre scenari futuri probabili e complessi, in modo che al loro interno si possano intravvedere anche occupazioni professionali prestigiose per tutti. Nei nostri progetti di orientamento abbiamo trovato utile proporre di aspirare a svolgere lavori dignitosi e prestigiosi pensando all’‘Economia della ciambella’ di Kate Raworth[9]. Questa visione dell’economia richiama anche tutti i saperi che concorrono a definire i diversi settori scientifici specifici e multidisciplinari e, al contempo, gli ambiti di lavoro sui quali i nostri studenti dovrebbero essere chiamati a riflettere e a operare nel corso delle attività di orientamento. Si pensi, ad esempio, quanto ‘buon’ orientamento, quanta ‘buona’ formazione e quanto ‘buon’ lavoro possono generarsi, sollecitando gli studenti a misurarsi con i problemi connessi alla difesa della biodiversità, alla riduzione di tutte le forme di inquinamento, ma anche alle formazioni e alle occupazioni possibili in favore della qualità della salute, dell’istruzione, del lavoro dignitoso, della pace, dell’equità, dell’inclusione, della diffusione delle Tic, della vivibilità degli ambienti di vita (abitazioni, città), ecc.[10]

Un laboratorio sulle aspirazioni
L’orientamento, con i suoi laboratori dedicati alle aspirazioni, si propone pertanto di far riflettere sul futuro, ricercando valori e occasioni per imbattersi in novità sorprendenti, senza lasciarsi imprigionare dagli antefatti, personali e ambientali, saturi di svantaggi e vulnerabilità, grazie a visioni e a relazioni in grado di avviare nuovi progetti, nuove traiettorie, nuove storie. In tal senso l’orientamento può incoraggiare a pensare di meno, in modo narcisistico, a se stessi e ai propri ‘orticelli’ passati e presenti e un po’ di più e più spesso a cosa potrà accadere in futuro, agli altri, alla salvaguardia del nostro pianeta, individuando responsabilità, impegni, mission da incarnare e imprese da intraprendere.
Un orientamento di questo tipo, indirizzato allo sviluppo sostenibile, all’homo sapiens, a quello prospectus et solidalis, non chiede agli studenti “Cosa vorrai fare da grande o qual è la tua professione ideale”, ma “Di quali problemi intendi occuparti, a quale missione 2030 intendi partecipare?”. Non chiede “Quali competenze hai maturato?”, ma “Cosa vorresti apprendere ancora e di nuovo, in cosa vorresti perfezionarti?”. “E noi, come gruppo, come laboratorio di IA, di cosa potremmo occuparci?”. “A proposito di ciascuna di quelle sfide ed emergenze che ci aspettano, quale potrebbe essere il tuo, il nostro contributo?”. “Come cittadino potrei…; come figlio potrei…; come amico di… potrei, come studente potrei…, come istituto potremmo…”.

Dall’homo oeconomicus all’homo sapiens
Sostenendo l’aspirare a ridurre disagi, ingiustizie e disuguaglianze, direbbe Appadurai, si stimolano l’attivismo, la pianificazione di azioni, e la precisazione di quelle che, in altre sedi, il Larios ha definito intenzioni formative e professionali e che prevedono dichiarazioni ‘pubbliche’ di responsabilità e propositi da declinare in agende sia personali che di gruppo. Va da sé che i programmi di orientamento non possono essere standardizzati, hanno bisogno di tempo, di pazienza, di personalizzazioni, di occasioni di apprendimento, di moduli e laboratori da condurre in contesti educativi solidali e supportivi.
Si tratta di non pensare più in termini psicoattitudinali, di non andare più alla caccia dell’uomo giusto al posto giusto (homo adaptus), di come soddisfare l’homo oeconomicus, o come ricercare quello competens (così continuano a suggerire tante agenzie internazionali interessate allo sviluppo economico, all’auto-imprenditorialità e alle cosiddette management skill). Dovremo, smettendola di assecondare le pretese dell’homo oeconomicus, ricordare che l’orientamento punta all’homo sapiens, a quello che, come dice ormai tanta neuropsicologia e la cosiddetta social brain theory[11], fa lavorare anche il suo cervello sociale, la sua capacità, cioè, di pensare, di intendere e farsi intendere dagli altri, tanto da essere sovente proteso a vedere, a immaginare il futuro. La persona intelligente (dal latino intelligere) sarebbe pertanto quella che si comporta prevedendo ciò che verrà dopo, le conseguenze dei comportamenti propri e degli altri e le condizioni situazionali necessarie al loro manifestarsi.

Dare uno scopo (nobile) all’orientamento
Anche chi fa orientamento, forse, può scegliere e decidere di essere più sapiens, e può dimostrarlo realizzando attività di orientamento attente soprattutto a quei ragazzi e a quelle ragazze che l’orientamento tradizionale troppo spesso tende a trascurare considerandoli sbrigativamente e colpevolmente poco adatti per lo studio e per la teoria.

Chi fa orientamento nelle scuole potrebbe forse dimostrarsi sapiens rifiutandosi, non essendo riuscito a realizzare azioni significative ed efficaci di orientamento, di formulare giudizi e consigli di orientamento che non farebbero altro che ‘profetizzare’ futuri poco soddisfacenti proprio per quelle ragazze e quei ragazzi che, anche senza l’orientamento, l’Invalsi, sin dalla scuola primaria, certifica come particolarmente svantaggiati e a rischio.

Chi fa orientamento nelle scuole potrebbe forse decidere che lo scopo dell’orientamento è l’incremento delle capacità di aspirare e che questo può essere perseguito solo a scuola, precocemente, con autentiche sensibilità educative, libere da pressioni derivanti dai mercati e molto tempo prima delle epoche di transizione e delle scadenze amministrative.

Se farà così, anche il suo focus non sarà più e solo il suo passato o il suo presente, ma anche ciò che come insegnante interessato all’orientamento potrebbe accadergli, affinché il futuro, ciò che accadrà facendo orientamento, a un certo punto della propria vita professionale potrà essere considerato effettivamente accaduto, successo… e ritenuto effettivamente tale anche da quei ragazzi che stavano a cuore a don Milani.

Il progetto “Stay hungry, stay foolish, ma anche stay curiosus, visionary, passionate…”
Il LaRIOS (Laboratorio di ricerca e intervento per l’orientamento alle scelte) è stato istituito nel 1994 all’interno del Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione  dell’Università di Padova, per dare un rinnovato impulso all’ambito della ricerca e all’applicazione in materia di orientamento scolastico-professionale, allo scopo di realizza e servizi altamente qualificati nei confronti degli operatori di orientamento e di enti pubblici e privati. Lo scrivente, con L. Nota, S. Santilli, M.C. Ginevra, I. Giannini, I. Di Maggio ed altri, vi fa parte fin dalla sua istituzione.

Il progetto del LaRIOS dell’Università di Padova invita gli studenti a:

  • ricordarsi di specifiche emergenze, locali e globali, quando pensano al proprio futuro e quando agiscono nel proprio presente, scegliendo di assumere adeguati e responsabili comportamenti quotidiani (“A proposito di ciascuna di queste emergenze il mio contributo potrebbe essere… io potrei…”);
  • dedicare a queste emergenze parte del proprio tempo, con approfondimenti e letture personali, partecipando a dibatti culturali, facendo attività di volontariato, ecc. (“A proposito di ciascuna di questeemergenze intendo incrementare l’interesse e la passione che nutro per…”);
  • scegliere percorsi formativi specifici, formali e non formali (“La scuola che sceglierò mi aiuterà a diventare un/una ‘specialista’ a proposito dell’emergenza…”);
  • prepararsi a svolgere attività professionali e a realizzare azioni lavorative utili al ridimensionamento dei problemi associati a questa o quella emergenza (“Di queste cose potrei occuparmi anche professionalmente imparando quanto necessarie per fare…”).

I lettori interessati a ottenere informazioni sul progetto Stay… possono farne richiesta scrivendo a: larios@unipd.it.

 

[1] F. Parson, Choosing a vocation, Houghton Mifflin, Boston, 1901. In questo testo il sociologo americano formula una concezione dell’orientamento (“l’uomo giusto al posto giusto”) che si propone come finalità quella di fornire risposta ai bisogni di una società catapultata nella rivoluzione industriale. Vi vengono esplicitate la delimitazione del settore, l’enfasi sull’approccio scientifico, la definizione di una teoria delle scelte professionali e la messa a punto di un corpo di tecniche di intervento.

[2] Si vedano i contributi di M. Santerini e D. Trovato nel n. 6-2019 di questa stessa Rivista.

[3] M. Romito, Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianza nelle transizioni scolastiche, Guerini scientifica, Milano, 2016.

[4] M. Viglietti, La relazione d’aiuto e l’orientamento, Rassegna Cnos-Fap, anno 13, n. 2, 1997.

[5] Vocational guidance: costrutto che attiene ai processi inerenti all’orientamento professionale. Career education: categoria formativa che definisce le attività che aiutano i giovani a conoscere meglio i contesti di lavoro e i percorsi di studio, e anche le proprie caratteristiche personali e potenzialità. La ritroviamo anche, a livello nazionale, nei recenti documenti del MIUR sull’orientamento e sui Pcto.

[6] C. Scarpellini, E. Strologo (a cura di), L’orientamento. Problemi teorici e metodi operativi, La Scuola, Brescia, 1976: raccolta di contributi a firma di psicologi, pedagogisti, economisti, sociologi, di esperti in scienze statistiche e sanitarie e di medici.

[7] “Siate affamati, siate folli”, secondo il monito di S. Jobs e “siate curiosi, visionari, appassionati”, secondo gli obiettivi di ricerca del Larios, per un progetto di vita ancorato alla logica degli “attesi imprevisti” (P. Perticari)

[8] A. Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, et al./edizioni, 2011. mocrazia e incrementano la speranza di poter modificare le proprie prospettive di vita e in particolare delle persone a rischio di espulsione ed emarginazione.

[9] Tale paradigma, proposto da K. Raworth in L’economia della ‘ciambella’, sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Ambiente, Milano, 2017, si fonda sul seguente approccio teorico: “Ci servono politiche e modelli nuovi: l’economia del XX secolo era concentrata sul concetto di crescita, ora dobbiamo cambiare mentalità. La nostra felicità non dipende da quanto consumiamo”. Occorre quindi creare un’economia rigenerativa, circolare e ridistributiva.

[10] Da dati raccolti dal Larios risulta che meno del 10% dei giovani delle scuole secondarie di II grado è a conoscenza dell’Agenda 2030 dell’ONU e che solamente un terzo dei 17 obiettivi ivi indicati è considerato in grado di incidere, in modo significativo, sulla qualità della vita propria, di quella dei propri cari e sulle condizioni dei propri contesti socio-ambientali.

[11] Il cervello sociale è costituito da una serie di regioni cerebrali aventi la capacità di anticipare, prevedere e interpretare i comportamenti altrui. Inizia a svilupparsi, come intelligenza sociale, sin dai primi anni di vita. Il cervello sociale “è legato ad alcune aree cerebrali che svolgono funzioni varie (…) che ci sono delle strutture nervose specifiche che entrano in funzione quando io penso agli stati mentali, non tanto i miei quanto quelli altrui”: A. Oliverio, Il cervello sociale, in “Mente e cura”, n. 0, 2009.