Il significato delle carriere in un carcere di massima sicurezza e in persone minorenni in contatto con il sistema giustizia: quale focus inclusivo per la pratica professionale?

A cura di Ernesto Lodi, Gian Luigi Lepri, Patrizia Patrizi

Da anni la cattedra di psicologia sociale e giuridica e il servizio di counseling psicologico OrientAzione dell’Università degli Studi di Sassari lavorano con varie situazioni di marginalità, collaborando con la Casa di Reclusione di Nuchis-Tempio Pausania e con il Centro per la Giustizia Minorile per la Sardegna. In questo contributo esporremo il lavoro di orientamento con i detenuti e le progettualità con minori e giovani adulti che sono venuti a contatto con il sistema giustizia.
Le premesse teoriche delle azioni nelle due situazioni possono essere rintracciate nel modello C.O.Re. – Comunità Orientante Relazionale (Patrizi, Lepri e Lodi, 2014) che propone un sistema di intervento pensato in chiave pro-attiva, inclusiva e promozionale e con una centratura sulla responsabilità. La nostra visione di orientamento (promuovere funzioni orientanti in tutti i sistemi coinvolti nella formazione lungo l’arco della vita, sostenere percorsi di carriera in chiave di benessere) si è confrontata con i più recenti sviluppi dei nostri lavori nella prospettiva dei restorative approaches, che supportano la ridefinizione e costruzione di nuovi significati generati dall’incontro tra persone e tra persone e sistemi, dove le azioni poste in essere sono non ‘su’ (imposto dall’esterno) e non ‘per’ (assistenziale e deresponsabilizzante) ma ‘con’ le persone (compartecipato e responsabilizzante) (Wachtel, 1999). L’ultima evoluzione del modello Co.Re. – Comunità di Relazioni riparative (Patrizi, Lepri e Lodi, 2016) ha caratteristiche che ne consentono l’utilizzo in diversi ambiti dove la promozione della persona passa attraverso quella della comunità e, reciprocamente, il benessere collettivo è possibile attraverso quello di ogni parte.
L’obiettivo sistemico del servizio, nutrendosi delle prospettive della psicologia di comunità, consiste nel lavorare per costruire un contesto inclusivo che sappia assicurare una migliore qualità della vita nel percorso formativo e professionale. In un periodo di crisi, le situazioni diventano ancor più rischiose quando si riflettono in condizioni cristallizzate di vulnerabilità sociale quali quelle che vivono minori e giovani adulti che hanno incontrato il sistema giustizia e per i quali spesso il significato della formazione scolastica e lavorativa assume solo la funzione di “puro contenimento” piuttosto che di sviluppo delle risorse individuali e relazionali in grado di promuovere traiettorie di vita soddisfacenti. In tali situazioni bisogna tener presente un altro fattore importante di rischio, ovvero il fatto che in queste persone spesso l’immagine del proprio sé si costruisca rigidamente intorno all’evento-reato e, in un periodo di incertezza e di instabilità che vivono le società europee dove alle persone è richiesta sempre più fluidità e capacità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti, si comprende agevolmente come tale cristallizzazione ponga ulteriori obiettivi di lavoro all’interno di un processo di counseling. Infatti, una costruzione del sé così monolitica accresce i fattori di rischio per i livelli di benessere percepito poiché ancor più ridotte paiono le possibilità di utilizzare le proprie funzioni adattive nel corso della carriera e della vita. In queste situazioni il lavoro dei counselor del servizio è consistito anche nell’operare affinché il sé non si costruisse prevalentemente a partire solo da una singola azione avvenuta in un singolo momento delle vite delle persone, condizionandone l’intera traiettoria di vita e di carriera.
Il servizio, lavorando con persone in situazioni di rischio, si pone in definitiva di ovviare a tali difficoltà supportando lo sviluppo dell’identità professionale, utilizzando dimensioni derivanti dalla psicologia positiva, quali speranza, ottimismo, resilienza, benessere, responsabilità e coraggio (De Leo, 1996; Ginevra e Capozza, 2015; Lent e Brown, 2008; Patrizi e De Gregorio, 2009; Seligman, 2002; Snyder et al., 1991; Sweeny, Carroll e Shepperd, 2006).

L’esperienza di orientamento in carcere
Sin dal 2013 il servizio ha svolto un intervento di career counseling con gli studenti della Casa di Reclusione di Nuchis-Tempio Pausania. Il progetto ha previsto una serie di incontri di orientamento a cadenza mensile all’interno dell’istituto penitenziario. Le azioni di counseling sono state volte a migliorare e supportare il percorso di carriera universitaria per le persone detenute, considerata la loro particolare situazione di vulnerabilità. Se analizziamo la letteratura recente sull’argomento, sono pochissimi, e per la maggior parte datati, gli studi pubblicati sul lavoro di orientamento e counseling con persone detenute. La maggior parte di essi sottolinea l’importanza del lavoro e della formazione nei processi di reinserimento, ma tutti sembrano focalizzarsi esclusivamente su processi di scelta basati sulle attitudini e le opzioni occupazionali considerate dai detenuti. Facendo un rapido excursus dei pochi studi pubblicati, si può notare che già dal 1936 Branham sottolineava l’importanza per il reinserimento della formazione professionale in carcere, richiedendo più cooperazione tra le istituzioni, i dirigenti del personale e i datori di lavoro nella comunità. Su tali posizioni si attesta anche Salaam (2013) sottolineando l’importanza della formazione e dell’inserimento professionale nel processo di reintegrazione, considerandoli elementi essenziali nel processo di ricostruzione delle speranze degli ex detenuti.
Due studi hanno testato empiricamente l’efficacia degli interventi di counseling in questo settore. Nel primo Fitzgerald e collaboratori (2013) constatarono che il counseling di gruppo aumentava nei detenuti le capacità di esplorare e identificare gli interessi professionali, le opzioni occupazionali, lo sviluppo delle capacità di ricerca di un lavoro e la pianificazione degli obiettivi. I risultati indicavano inoltre che i partecipanti riportavano punteggi di autoefficacia, problem solving e speranza più alti durante il post-test e il follow-up rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo. Nel secondo, Place e collaboratori (2000) conclusero, attraverso uno studio sperimentale, che i detenuti che avevano ricevuto prima della scarcerazione un programma intensivo di supporto, attraverso interventi di counseling con il potenziamento delle abilità di problem solving e di career awareness, avevano minori probabilità di recidiva rispetto a chi veniva rilasciato senza alcun programma.
Per quanto riguarda i minori detenuti, Weissman (1985) affermava come i programmi riabilitativi tradizionali influissero poco nel prepararli alla vita esterna, mentre riteneva necessario lavorare attraverso il counseling sulle coping skill e il potenziamento delle life skills affinché essi fossero capaci di trovare e mantenere un lavoro.
Durante il nostro percorso di orientamento, abbiamo svolto delle interviste sul significato delle carriere per gli studenti universitari reclusi nel carcere di massima sicurezza. Le interviste prevedevano domande generative sul significato e le funzioni del percorso formativo, nelle seguenti aree di indagine: 1) la carriera di studente (p.e. “Quando e come hai maturato la scelta di intraprendere il tuo percorso di studi? Cosa significa la laurea per te in prospettiva futura?”); 2) l’impatto del percorso di studio sul mondo relazionale (p.e. “L’essere studente universitario ha modificato i tuoi legami con la società esterna? ”); 3) le difficoltà incontrate nel percorso formativo (p.e. “Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel percorso di studio?”).
La sfida in questi caso è stata comprendere i significati dei percorsi di carriera per persone coinvolte in tipologie di reati che prevedono anche il “fine pena mai”. Il significato delle carriere in questi particolari casi deve necessariamente svincolarsi dalla sua implicazione più naturale, ovvero un possibile futuro lavorativo: in molti dei nostri utenti tale futuro, più che incerto, è talora impossibile. Possiamo riassumere in questa sede solo i risultati principali delle indagini: i percorsi di studio iniziano in genere in base alle opportunità che si incontrano nelle varie sedi di detenzione, viene in definitiva effettuata una scelta in funzione dell’occasione che si presenta nell’istituto penitenziario di riferimento, con tutto ciò che ne consegue quando si sceglie solo per motivazioni esterne. I significati delle carriere si concentrano in linea di massima su due nuclei: a) carriera universitaria da intraprendere come gratificazione personale; b) carriera universitaria quale strumento per poter essere anche un esempio positivo (in particolare per i propri figli e figlie). Per quanto riguarda invece l’impatto della carriera universitaria sul mondo relazionale dei detenuti si evince che il rapporto con l’esterno è cambiato in modo positivo, pur restando i contatti minimi, mentre si sono verificati significativi cambiamenti nei rapporti istituzionali. Ciò che tali studenti soprattutto vivono come difficoltà è la totale mancanza di un “contesto di studio”, ovvero la mancanza di rapporti con altri studenti e docenti universitari con i quali confrontarsi. Per questo motivo, durante il percorso di orientamento, i counselor del servizio si sono attivati organizzando sia incontri con altri studenti per condividere informazioni sui percorsi universitari e sugli argomenti di studio, sia incontri con i docenti, in particolare organizzando anche l’apertura dell’anno accademico di alcuni corsi di laurea all’interno della casa di reclusione con la partecipazione di docenti e direttori di dipartimento. Altra difficoltà è quella incontrata nei confronti dei pre-giudizi della comunità esterna, segnaliamo per esempio la accesa protesta di alcuni cittadini in seguito alla notizia, riportata da un giornale locale, che uno dei detenuti svolgeva per poche ore alla settimana una attività lavorativa presso una struttura per anziani: si trattava invece di attività di volontariato svolta come forma di restituzione solidaristica alla comunità! Tale situazione causò l’interruzione di quel percorso, con tutto ciò che questo può comportare nella delicata fase del reinserimento, dove le persone sono più vulnerabili, non solo rispetto a necessità materiali e alla difficoltà di trovare un lavoro regolare, ma anche relazionali, sociali e individuali, dovendo i detenuti affrontare le difficoltà di farsi riaccettare, di costruire nuove relazioni, di farsi conoscere oltre il pregiudizio (http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/ali/nausicaa.htm).

Le progettualità con persone minorenni e giovani adulte
Per quanto riguarda il lavoro con minorenni, l’importanza delle traiettorie di carriera si può evincere da ciò che promuove il Ministero della Giustizia: “La formazione culturale e professionale ha per obiettivo il successo occupazionale dei giovani che si trovano in istituto ed è considerata un presupposto fondamentale per l’autonomia personale e il conseguente abbandono del circuito dell’illegalità (…) l’amministrazione perciò si adopera per instaurare positivi rapporti con il tessuto produttivo e conciliare le aspettative aziendali con le aspirazioni professionali dei giovani” (https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_5_6_4.page). Manca però, a nostro avviso, il fattivo coinvolgimento di figure professionali in questo settore, quindi resta in qualche modo “oscuro” il modo in cui tali aspirazioni vengano rilevate e le scelte accompagnate. Anche per cercare di colmare il gap, riguardo alla mancanza sia di professionisti all’interno di questi contesti sia di studi scientifici nel settore, recentemente la cattedra di psicologia sociale e giuridica del Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali (Università di Sassari) in collaborazione con il La.R.I.O.S. (Università di Padova) ha presentato una proposta progettuale alla Fondazione Banco di Sardegna dal titolo “Promuovere l’adattabilità professionale di minori e giovani adulti per facilitare la costruzione di percorsi di carriera in grado di contrastare le vulnerabilità sociali” volta a supportare il percorso di vita e di carriera di persone minorenni e giovani adulte venute a contatto con il sistema giustizia. Tutto ciò in un territorio con fattori già critici per i giovani visto che nello specifico la Sardegna con il 56,4% si trova in ottava posizione per disoccupazione giovanile nel territorio UE dove la media europea è al 20,4% (ISTAT, 2016). Tre sono i fondamentali obiettivi per promuovere nuove risposte efficaci ai fenomeni di processi di esclusione sociale e lavorativa di tali persone: 1) Accrescere le probabilità di sperimentare maggiori livelli di benessere nell’attuazione dei propri progetti di carriera; 2) Diminuire l’incertezza nelle scelte e accrescere i livelli di positività nella visione del futuro, lavorando su responsabilità e capacità di prendere decisioni nonostante i rischi percepiti; 3) Supportare orientamenti proattivi in grado di favorire l’inclusione di persone in situazione di rischio. Il progetto mira dunque, a partire dai dati della ricerca empirica, a proporre un modello teorico-pratico di intervento per accompagnare lo sviluppo di traiettorie di vita e di carriera volte al pieno utilizzo di tutte le risorse individuali e sociali per contrastare le vulnerabilità sociali. Tutto ciò nell’ottica di favorire l’inclusione di persone in condizione di svantaggio e per rendere tali persone più pronte ad affrontare rischi, precarietà, incertezza e instabilità, aggravate anche dai processi di etichettamento sociale per le azioni illecite compiute. Per sostenere l’ottica di sistema e di “sforzo” comunitario, sono stati coinvolti nel progetto vari enti pubblici e privati tra cui i Servizi della Giustizia Minorile e due cooperative sociali che ospitano tali minori, nonché altre organizzazioni interessate ai percorsi della formazione lungo l’arco della vita e ai percorsi della carriera in chiave di benessere di minori in situazione di rischio.

Conclusioni
Per le situazioni sopra esposte, a nostro avviso, il ruolo del counselor deve necessariamente assumere altre responsabilità, oltre quelle già sottolineate da Weissman nel 1985 come la capacità di aiutare gli altri e di migliorare il potenziale di competenze dei propri utenti: bisogna infatti supportare anche i processi di rielaborazione e attribuzione di significato del percorso di vita e di carriera e, soprattutto, non far terminare il proprio lavoro all’interno delle mura carcerarie o delle strutture che accolgono i minori. Bisognerebbe infatti anche preparare la comunità al significato e alla valenza dei percorsi lavorativi per il reinserimento delle persone e coinvolgendo attivamente le diverse parti sociali nelle iniziative di orientamento. Tale modalità di intervenire faciliterebbe, a nostro modo di vedere, la possibile decostruzione di stereotipi che spesso sono la principale barriera che esclude e limita i percorsi di reinserimento lavorativo e di vita delle persone che vivono o hanno vissuto a contatto con la giustizia.
Non si può a nostro avviso continuare a ragionare di inclusione seguendo una logica “additiva”, secondo la quale si integra una persona in un gruppo (magari già formato e coeso lungo dimensioni e caratteristiche che le componenti già condividono) e che crea spesso pre-giudizi e rigidità. Questa forma di inclusione è ben visibile, i processi sottostanti già noti, i risultati non produttivi per accrescere i livelli di benessere per tutti, e quindi non profondi, né duraturi, né innovativi. Il lavoro del counselor non può in quest’ottica che essere sistemico, spostando il focus dell’inclusione dalla persona considerata da includere (e come tale, se vogliamo, già portatrice di un “vulnus” nel migliore dei casi, di un “minus” nei peggiori) al benessere del gruppo, dell’organizzazione, della comunità che realmente include in maniera “invisibile”. Tale lavoro, per essere produttivo, deve creare benessere, e il benessere di tutte le parti reca con sé e in maniera connaturata l’inclusione, tendendo a rendere la vita di ognuno significativa.
Esiste un ultimo, annoso problema, segnalato da più parti in merito a questo argomento: la scarsità di risorse. Anche in altre esperienze si sottolinea tale carenza, che si ripercuote in termini di risorse umane e che ostacola la messa in atto di azioni in linea con le normative in materia e con la nostra Costituzione, rendendo spesso difficili i percorsi di re-inserimento dei detenuti o dei minori in situazione di rischio. Purtroppo anche il servizio OrientAzione vive un momento di notevole difficoltà, in quanto non riceve finanziamenti dal 2014, tutto ciò in controtendenza rispetto agli orientamenti internazionali attuali dove la presenza di tali servizi rappresenta una ricchezza.
Ciò che osserviamo è una sorta di doppia precarietà: quella di persone in condizioni vulnerabili, quella di un servizio specificamente pensato per lo sviluppo di competenze di fronteggiamento (non solo per le situazioni descritte in questa sede, ma più in generale per studenti che vivono difficoltà di scelta o di gestione della carriera o di inserimento professionale alla fine del percorso di studio) che, proprio in una fase di crisi, non ha più il supporto economico necessario al suo funzionamento. Come se l’istituzione, essa stessa “vittima della crisi”, avesse rinunciato a considerare come prioritario l’obiettivo inclusivo, optando per altre strategie di attrazione quantitativa delle persone. Ciò è probabilmente in linea con l’idea di un’Europa competitiva, ma non con l’idea, non meno rilevante, di un’Europa inclusiva, capace di garantire sviluppo anche alle sue fasce più deboli, di sostenerne i percorsi di carriera, per rendersi sì competitiva, ma su base di coesione ed equità sociale. Questa è la nostra concezione di orientamento inclusivo.