SbrisolAut- la “buona” impresa

A cura di Laura Delfino

SbrisolAut nasce durante una telefonata tra uno studio specialistico e un’azienda profit. Più che una telefonata era un dibattito che si è concluso in una scommessa. A volte le cose nascono così, scommettendo, correndo rischi, unendo il coraggio ad una buona dose di incoscienza.

Nonostante la professione complessa, ho sempre creduto nella semplicità delle cose, così per anni ho pensato che per far lavorare una persona con autismo fosse necessario che avesse le abilità professionali e da clinico ho investito energie in quella che gli specialisti chiamano “abilitazione”.

Ho iniziato ad occuparmi come professionista di autismo nel 2002: da giovane laureata andai a lavorare come educatrice in una fattoria di ragazzi autistici, Cascina Rossago, nell’Oltre Po Pavese. Invece di effettuare valutazioni e diagnosi mi sono ritrovata a spalare terra, raccogliere frutta, pulire la stalla insieme ad altri ragazzi e ragazze, qualcuno sicuramente più capace di me. In quegli anni ho conosciuto l’autismo nelle sue varie manifestazioni e complessità comportamentali, ho iniziato a comprenderne il funzionamento, ho conosciuto i familiari di questi ragazzi e ho compreso che l’organizzazione e strutturazione dei contesti determinava condizioni di benessere e, in alcuni casi, di produttività. Ho capito che i miei “compagni di lavoro” erano capaci e che l’handicap o la condizione di svantaggio non coincideva esattamente col funzionamento autistico, bensì con i sistemi che collocano tale disabilità.

Torno a Mantova nel 2009, assunta da Sol.Co Mantova per lavorare in una residenza sanitaria per persone con disabilità (rsd), Rossonano. Cambiano i contesti, ma la visione è la medesima: questi ragazzi possono lavorare, anzi questi ragazzi devono lavorare. All’interno della residenza bisogna creare contesti di vita e di lavoro che valorizzino le capacità delle persone e questa diventa una sfida importante, perché le rsd prevedono elevati livelli di assistenza, ma il mandato di Sol.Co.  è quello di non limitare le opportunità, bensì crearne di nuove, scoprire che nell’ordinario c’è spazio per lo straordinario, anche se questo prevede rivoluzione di contesti.

Nel 2014 inizio ad occuparmi di piccoli, bambine e bambine con diagnosi recentissime, mi specializzo e inizio a formare educatori ed insegnanti. Sono anni di grandi cambiamenti (nel 2011 escono le linee guida per l’autismo[1], nel 2013 il DSMV[2], nuove DGR in favore dell’autismo) e i contesti scientifici iniziano a reclamare specializzazione di professionisti, precocità e intensività di intervento, avvio di trattamenti efficaci. Io parlo di lavoro, lo faccio con i genitori dei piccoli, lo faccio con i professionisti e mi rendo conto che le mie modalità possono essere percepite in modo minaccioso quando dico “oggi, voi, con le vostre scelte ed azioni state decidendo il futuro di questi bambini!”.

Questa frase nasce dall’amara consapevolezza che non è la disabilità a determinare le traiettorie di vita; se così fosse potremmo auspicare in un algoritmo che calcola la quantità di supporto necessario per una condizione di benessere rilevata su parametri oggettivi e soggettivi all’individuo. Invece sono i contesti che determinano il benessere, decretando quale “luogo” è adatto ad una persona.

L’autismo, in particolare, è ancora considerato un disturbo, qualcosa che si discosta dalla norma e che in qualche modo deve rientrare in un parametro di normalità che renda possibile la normalità.

Questa percezione medica dell’autismo radica nei contesti false credenze, obiettivi errati, perdita di tempo: sento professionisti che parlano di immaturità relazionale quando non è immaturità, bensì un funzionamento mentale diverso. È come dire ad una persona in carrozzina, con paralisi permanente agli arti inferiori, che dovrà imparare a camminare da sola e finché non ne sarà in grado verrà considerata “immatura”, “non pronta”.

Con questo non voglio dire che il sistema medico di riabilitazione non abbia senso; sostituirei la parola riabilitazione con abilitazione: questi bambini e bambine possono imparare tantissime cose che si riflettono anche in modalità relazionali, ma il funzionamento autistico rimane lo stesso. Si dice spesso, ma forse non si capisce, che dall’autismo non si guarisce, perché non è una malattia!

L’autismo rimane, ma i contesti possono cambiare.

Sono proprio i contesti che non accettano i cambiamenti. Come quella volta, dopo l’ennesima riunione della giornata, in cui mi sono trovata a litigare con alcune insegnanti che si rifiutavano di sostenere la proposta che io e genitori di Paolo facevamo loro, ovvero di bocciare il bambino, perché aveva frequentato troppo poco la scuola e non aveva potuto raggiungere gli obiettivi minimi. Le insegnanti ripetevano che la classe era stata creata ad hoc per Paolo e che avendo una diagnosi di autismo non era prevista la bocciatura. Inutile spiegare che il bambino avrebbe potuto beneficiare della scuola non solo come di un luogo accogliente, ma anche di luogo di apprendimento. Paolo può imparare così tante cose e un anno in più per lui è importante per non rimanere costantemente in dietro e lontano dalla possibilità che un domani possa andare a vivere da solo e imparare un mestiere. Quella riunione sembrava un paradosso in cui il diritto della persona veniva confuso con trattamenti speciali. “Bocciatelo come fareste per gli altri, se quell’anno farà la differenza”, ma la differenza non la fa se non hai il coraggio di anticiparla. Essere uguali, avere parità di diritti è un costrutto complesso, evidentemente, e per capirlo bisogna accettarlo senza se e senza ma.

Creare contesti speciali è sicuramente importante, in alcune situazioni indispensabile: creare luoghi di accoglienza della persona, delle sue difficoltà e valorizzarne le potenzialità; i luoghi speciali o servizi specialistici sono quindi un ponte indiscutibile verso il benessere della persona con disabilità e della sua famiglia. Ma questi stessi servizi alla persona rischiano di diventare limitanti se diventano, alla fine, l’unica possibilità!

Mantova, partendo dal prezioso contributo di Vittorina Gementi, che nell’ottobre del 1966, con tre sezioni di scuola materna e cinque di scuola elementare, creò Casa del Sole, è diventata un importante punto di riferimento per tante famiglie, mantovane e non solo, che fino ad allora vivevano la disabilità dei loro figli come qualcosa di non gestibile, da nascondere e da tenere lontano. Con Casa del Sole e Vittorina Gementi inizia un approccio mantovano alla disabilità che dà valore all’essere umano a prescindere dalla disabilità che lo caratterizza, accogliendolo in un contesto bello, ricco di stimoli e adeguato alle necessità. Fino ad allora le scuole pubbliche non erano preparate ai bambini e alle bambine con difficoltà e per molte famiglie l’unica soluzione era “ricoverare” i piccoli all’interno di istituti ospedalieri/psichiatrici; qui sarebbero rimasti e questa sarebbe stata la loro casa. Vittorina Gementi ha lottato perché esistesse un’alternativa ad una traiettoria di vita non dignitosa e con coraggio ha creato una Casa-Scuola che riuscisse ad incidere sui bambini/e con disabilità e sulle loro famiglie. Vittorina possedeva una granitica certezza, guadagnata non solo con il pensiero e lo studio, ma nel vissuto quotidiano: una barriera (handicap) di ordine fisico o biologico non poteva annullare o diminuire il valore-uomo[3]. Non si trattava di “figli di un dio minore” ma di “Bimbi, portatori di Luce[4], di “ragazzi meravigliosi come le conchiglie che bisogna scoprire per vedere e godere la stupenda loro perla che è la dignità della loro personalità[5].

In realtà, il modello psicopedagogico della Gementi ha impattato su un’intera comunità che si è modellata su Casa del Sole, creando servizi alla persona che accogliessero il non-più-bambini in contesti speciali altrettanto accoglienti e valorizzanti la dignità umana. È così che nascono centri diurni, centri socioeducativi e comunità residenziali per adulti con disabilità. Mantova continua ad essere una città accogliente nei confronti della disabilità; rispetto ad altre province si caratterizza per un elevato numero di centri specialistici.

Io stessa cresco nella convinzione che la disabilità necessita di luoghi speciali, in cui i professionisti devono essere sostenuti da buone competenze professionali e devono essere ispirati dal modello di Vittorina che vede nell’uomo, e nelle sue fragilità, il dono di Dio.

Passerà del tempo quando mi imbatto in una frase della Gementi, che disse in un intervento in Seminario in occasione dell’ “anno internazionale delle persone handicappate” (1981); Vittorina accennava al ruolo dell’educatore e del terapista e così esprimeva: “qualificandoci, constateremo sempre più i limiti del nostro possibile intervento sull’uomo, se lo vogliamo aiutare a crescere o ad esprimersi liberamente, autonomamente, responsabilmente nella sua unicità (…). Se invece lo costringiamo a entrare nei binari che noi e la struttura della nostra società hanno decretato perché sia uguale a tutti, non ci accorgeremo neppure di aver contribuito ad impoverire l’umanità, impedendo a chi ha maggiori o minori difficoltà di “essere diverso per essere sé stesso” (…)[6] .

Queste parole, non semplici da interpretare, mi guideranno in una fase professionale critica.

Ero convinta che il mio ruolo fosse l’abilitazione: insegnare ai bambini e alle bambine con autismo a diventare persone adulte, agire sul profilo di funzionamento adattivo, ovvero avere le capacità comunicative, di socializzazione e le abilità del vivere quotidiano, indispensabili per essere adulti. Iniziano, però le prime delusioni e insuccessi: per quanto capaci fossero i ragazzi c’era sempre qualcuno che li reputava “non adeguati”. Questo accadeva a scuola, di ogni ordine e grado e nei contesti lavorativi. Due sono le frasi ricorrenti: “questo bambino è da Casa del Sole. Non è il posto giusto”, “questo ragazzo non ha sufficienti abilità relazionali per poter lavorare”.

La cosa più difficile da accettare è che dietro a queste frasi ricorrenti non ho mai letto desiderio di far del male, di allontanare o di discriminare, ma puro interesse a fare la scelta giusta per la persona in questione. Vittorina Gementi lo aveva detto: “…non ci accorgeremo neppure di aver contribuito ad impoverire l’umanità, impedendo a chi ha maggiori o minori difficoltà di “essere diverso per essere sé stesso”.

Comprendo che mi manca qualcosa per affrontare questa difficoltà professionale; rischio di non aver più la motivazione ad andare avanti. Che senso ha insistere sul lavoro e sul ruolo dei professionisti se i ragazzi vengono considerati inadeguati? Che senso ha motivare i genitori a insistere per i diritti dei loro figli alla scuola pubblica se poi viene loro consigliato di non farlo?

Ritorno dai miei mentori, il mio relatore di tesi all’Università di Padova, il Prof.re Salvatore Soresi e la Prof.ssa Laura Nota, delegata all’inclusione dell’Università. Le loro parole e i loro insegnamenti mi hanno sempre guidato nello studio e nel lavoro. Cercavo soluzioni e ho avuto traiettorie. Credo che sia così che fanno i saggi: non ti danno soluzioni ai problemi, ma ti insegnano a trovarle!

È novembre 2018 ed inizio il master universitario “inclusione e innovazione sociale”. Poco alla volta capisco l’errore.

L’errore è credere che per includere le persone con disabilità si debba “inserirle”[7].

Non basta, non funziona e anche se includi qualcuno, qualcun altro rimane escluso. Inclusione significa agire sui contesti, prepararli e aiutarli a modificarsi. È un lavoro immenso, ma è l’unica strada percorribile per fare davvero inclusione. Divento sentinella dell’inclusione e comprendo che la mia missione è contribuire a fare di Mantova una città inclusiva e questa consapevolezza mi ridona entusiasmo e passione per il mio lavoro.

Comprendo che devo cercare alleanze, perché una missione del genere comporta azioni politiche (azioni in favore della polìs e non partitiche) in cui la forza agentica di più persone può agire sui sistemi e il sistema da cambiare è radicato nella nostra città. Non possiamo più permetterci di credere che le persone con disabilità siano solamente accolte nei luoghi speciali: i luoghi di tutti devono diventare speciali, perché davvero di tutti!

Sol.Co mi sostiene, la mia responsabile mi sostiene e così inizio a far parte di due gruppi che si occupano di inclusione e accessibilità, ViviAmo e La Ricchezza della diversità. Entrambi i gruppi, guidati dal centro per i servizi di volontariato (CSV), associazioni/enti e cittadini sensibili, mirano all’inclusione: il primo si concentra sull’accessibilità di Mantova e il secondo sulle scuole. Agire sulla cultura  e sulla bellezza di Mantova è una strada vincente per migliorare l’accessibilità e cambiare il modo di pensare; entrare nelle scuole e parlare con naturalezza di diversità e disabilità, significa promuovere la crescita di adulti, capaci di riconoscere il valore dell’altro e la bellezza della cura reciproca.

Continuo a formare educatori ed insegnanti e oltre a parlare di autismo e del suo specifico funzionamento, parlo di inclusione e di cambiamento.

Nel frattempo, capisco che anche Spazio Autismo, il servizio specialistico nel quale lavoro, deve crescere e, per farlo, promuoviamo l’innovazione tecnologica attraverso l’utilizzo della robotica. La tecnologia è spesso vista con timore, perché intesa come sostituzione del lavoro di professionisti: ma anche questo fa parte di false credenze, l’innovazione può essere in realtà a grande a vantaggio dell’inclusione. Nell’autismo, in particolare, la tecnologia è un canale elettivo, le informazioni e le stimolazioni arrivano dirette e chiare: gli apprendimenti sono più rapidi. Sarà proprio l’utilizzo della tecnologia una delle riflessioni realizzate in termini di supporti lavorativi.

In questi anni, dal 2018, inizio a sentir parlare di lavoro associato all’autismo e inizio ad interessarmi a due realtà lavorative: Auticon e PizzAut.

La prima è un’azienda profit di consulenza informatica che assume soltanto persone nello spettro dell’autismo con funzionamento intellettivo elevato e che hanno un talento tecnologico: Auticon lavora per importanti aziende private e pubbliche, fornendo assistenza in progetti tecnologici. Quando familiari o professionisti che si occupano di autismo sentono parlare di Auticon, generalmente commentano dicendo che è facile parlare di lavoro quando il funzionamento cognitivo è elevato. Anche questa è una falsa credenza: sono tanti i ragazzi che pur avendo elevate capacità cognitive e diploma o laurea non riescono ad ottenere o mantenere un lavoro: alcuni di loro non superano il colloquio di lavoro, perché le peculiarità relazionali sono considerate, dalle aziende, un ostacolo insormontabile, altri, pur superando il colloquio di assunzione,  si trovano costretti ad abbandonare, perché la mansione affidatagli e le difficoltà interpersonali diventano condizione di stress tali da compromettere lo stato di benessere. Il mio maggiore interesse per Auticon si concentra sul modello di supporto individuato. Ai professionisti con diagnosi, i consulenti auticon, sono affiancati job coach, psicologi o educatori esperti in autismo, che hanno il ruolo di supportare a livello relazionale le difficoltà tipiche della persona autistica: si rapportano con il consulente auticon, formano il personale dell’azienda cliente, identificano i fattori stressogeni per il consulente, mediano nel rapporto tra cliente e consulente. Eccolo il supporto: il job coach!

L’errore di fondo che si commette quando si parla di inserimento lavorativo di una persona con autismo è pensare di “inserirla” in un contesto professionale senza dotarla del supporto necessario. Nessuno di noi penserebbe di favorire l’inserimento lavorativo di una persona con disabilità motoria o sensoriale senza consentirle di usare i supporti che le sono necessari. Per l’autismo l’atteggiamento sembra essere discriminante in tal senso, come se il supporto relazionale, non fosse in realtà un vero supporto e che prima o poi la persona deve maturare e cavarsela senza supporto. Nell’autismo, la difficoltà a livello relazionale deriva da un funzionamento specifico: possono imparare tanto, ma l’autismo, o meglio, il fulcro dell’autismo, non cambia. Come è stato già detto, la persona autistica rimane tale pur migliorando, mentre i contesti possono cambiare e per contesti si intende le persone, i professionisti che lavorano nei contesti, coloro che vengono reputati essere “abili a livello relazionale”. Per citare Alberto Balestrazzi, amministratore delegato di Auticon Italia,   esiste un effetto collaterale dell’includere la diversità, “significa soprattutto rimettere in discussione se stessi e l’inclusione prevede un cambiamento del contesto…inserimento significa cambiare il contesto non cambiare la persona, anche perché è molto difficile che possa cambiare. È l’azienda che si adatta alla persona piuttosto che la persona che si adatta all’azienda”.[8]

Altro interessante esempio di lavoro e autismo è quella di PizzAut, la prima pizzeria gestita da persone con autismo. Nico Acampora, educatore e fondatore di PizzAut, nonché genitore di un bambino autistico, insieme ad un gruppetto di ragazzi, attraverso il suo talento comunicativo è riuscito non solo ad aprire una pizzeria, ma è riuscito a destare l’interesse di personaggi pubblici dello spettacolo e della politica. A tal proposito, grazie anche all’apporto di progetti come PizzAut a dicembre 2021 le Commissioni riunite Finanze e Lavoro del Senato hanno approvato l’emendamento del senatore Eugenio Comencini e di tutti i gruppi parlamentari presenti in Senato, che prevede importanti sgravi fiscali e contributivi per tutte quelle imprese innovative che assumono lavoratori con disturbo dello spettro autistico, nella misura di due terzi del personale.

PizzAut ha reso possibile ciò che per molti era considerato impossibile: far lavorare anche persone con diagnosi di autismo con funzionamento medio e non necessariamente elevato.

Auticon e PizzAut diventano quindi due riferimenti importanti, eppure non sono progetti di inclusione vera e propria: entrambe le imprese assumono persone autistiche. Ritorniamo ai luoghi speciali. Non è ancora possibile che aziende o enti riescano ad includere nel proprio gruppo persone con diagnosi di autismo. Non sono pronte forse. Non vuol dire che non lo saranno mai, bisogna prepararle. Bisogna segnare le traiettorie.

Un’altra cosa importante che ho appreso è che per fare inclusione serve tempo, per cambiare i contesti, bisogna cambiare il modo di pensare, bisogna alterare i bias che ci contraddistinguono e per farlo serve tempo, a volte servono accomodamenti.

Quindi per cambiare i contesti bisogna anche creare opportunità di riflessione, stimoli per capire che si può uscire dall’ordinario, che si può sfidare una comunità a guardare le cose da una prospettiva diversa ed è da qui che nasce SbrisolAut.

È qui che parte la nostra scommessa!

Forti dell’esperienza di Auticon e di PizzAut, consapevoli dei vantaggi e dei limiti che li caratterizzavano, un gruppo di professionisti ha deciso di unire le proprie competenze per sostenere una nuova impresa che assuma ragazzi con autismo. Sono professionisti e non genitori e questa è stata una scelta motivata dal bisogno di dichiarare alla comunità che a guidare questa impresa non c’è il bisogno del genitore che costruisce il futuro dei figli, bensì la consapevolezza di professionisti relativa ai punti di forza e di debolezza di ragazze e ragazzi con autismo. Ho visto come lavorano, ho chiaro in testa che cosa potenzia le capacità e che cosa può diventare una barriera. SbrisolAut nasce per dichiarare alla comunità che il lavoro è un diritto di tutte le persone, anche quelle neurodiverse, che per lavorare non bisogna sono essere talentuosi, eccellenti o competitivi, ma che tutte le persone possono lavorare dando il meglio di sé e questo è possibile se le aziende creano le opportunità perché possano farlo. Ecco, quindi, che questo laboratorio di pasticceria secca vuole creare un modello di impresa profit replicabile.

Perché un’impresa profit e non un’impresa sociale?

Perché anche le imprese profit possono ottenere sgravi fiscali fino a sessanta mesi pari al 70% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali[9]. Rispetto al disegno di legge di Comencini, fino ad oggi, non è prevista la sospensione o congelamento dell’assegno di invalidità. La “sospensione” consente la riattivazione della pensione di invalidità con semplice domanda all’INPS, nel momento in cui la persona assunta, per qualsiasi ragione, non sia poi in grado di poter lavorare (evitando così di riavviare il complesso e lungo iter per il riconoscimento della pensione).

Impresa profit, perché il profitto dell’impresa vuole garantire continuità e quindi vuole sostenere il lavoro dei professionisti (con autismo e non) a lungo termine. Il profitto non deve essere visto come qualcosa di incompatibile con la finalità sociale, bensì deve essere percepito come “linfa di produttività”; le persone con disabilità non devono essere considerate un “problema”, un peso per la comunità. Per loro non possono esistere solo progetti sociali: questi progetti rischiano di essere parziali se non sostenuti da azioni benefiche o bandi a sostegno. Dobbiamo iniziare a credere che il lavoro di tutti e le potenzialità di ogni singola persona possono essere espresse come beneficio alla comunità. Bisogna iniziare a rivoluzionare il pensiero assistenzialistico che caratterizza la nostra società e per farlo sono necessari passi come quelli delle imprese che garantiscono lavoro per fasce di persone percepite come “deboli”. In realtà non sono deboli, ma sono “indebolite” dalla comunità e continueranno ad esserlo finché di esse si continuerà a percepire una diversità non compatibile con la condizione di “normalità”. 

La convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità[10] illustra chiaramente la traiettoria necessaria per cambiare. Eppure, questa convenzione è anch’essa una forma di accomodamento. La convenzione dei diritti umani del 1950 non è stata intesa così avrebbe dovuto essere e non sono state incluse le persone con disabilità (e non solo) se 56 anni dopo è stato necessario fare specifiche sui diritti. L’articolo 27 della convenzione sui diritti delle persone con disabilità dice:

1. Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, anche a coloro i quali hanno subìto una disabilità durante l’impiego, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di:

(a) vietare la discriminazione fondata sulla disabilità per tutto ciò che concerne il lavoro in ogni forma di occupazione, in particolare per quanto riguarda le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, la continuità dell’impiego, l’avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e di igiene sul lavoro;

(b) proteggere il diritto delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, di beneficiare di condizioni lavorative eque e favorevoli, compresa la parità di opportunità e l’uguaglianza di remunerazione per un lavoro di pari valore, condizioni di lavoro sicure e salubri, la protezione da molestie e le procedure di composizione delle controversie;

(c) garantire che le persone con disabilità siano in grado di esercitare i propri diritti di lavoratori e sindacali su base di uguaglianza con gli altri;

 (d) consentire alle persone con disabilità di avere effettivo accesso ai programmi di orientamento tecnico e professionale, ai servizi per l’impiego e alla formazione professionale e continua; (e) promuovere opportunità di impiego e l’avanzamento di carriera per le persone con disabilità nel mercato del lavoro, quali l’assistenza nella ricerca, nell’ottenimento e nel mantenimento di un lavoro, e nella reintegrazione nello stesso;

(f) promuovere opportunità di lavoro autonomo, l’imprenditorialità, l’organizzazione di cooperative e l’avvio di attività economiche in proprio;

(g) assumere persone con disabilità nel settore pubblico;

(h) favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure;

(i) garantire che alle persone con disabilità siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro;

(j) promuovere l’acquisizione, da parte delle persone con disabilità, di esperienze lavorative nel mercato del lavoro;

(k) promuovere programmi di orientamento e riabilitazione professionale, di mantenimento del posto di lavoro e di reinserimento nel lavoro per le persone con disabilità.

2. Gli Stati Parti assicurano che le persone con disabilità non siano tenute in schiavitù o in stato di servitù e siano protette, su base di uguaglianza con gli altri, dal lavoro forzato o coatto.

Eppure, un’interrogazione parlamentare europea del 17 marzo 2021 relativa all’autismo e all’occupazione inclusiva[11] dichiara che “le persone autistiche, indipendentemente dalle loro esigenze di sostegno, subiscono un elevato livello di discriminazione in tutti gli aspetti della vita, compresi l’istruzione e la formazione professionale, con conseguenti scarsi risultati occupazionali. La disoccupazione colpisce in modo sproporzionato le persone autistiche, anche quelle con un livello di istruzione superiore alla media. Il loro tasso di occupazione è inferiore al 10 %, ben al di sotto dei tassi del 47 % per le persone con disabilità e del 72 % per le persone senza disabilità. Inoltre, spesso sono sottoccupate, lavorano in posti di lavoro precari e/o di breve durata con retribuzioni molto basse, spesso all’interno di istituti e contesti protetti, e sono ad alto rischio di povertà ed esclusione sociale.”

Le forme di discriminazione possono non essere visibili, eppure, presenti e soprattutto quando si parla di persone con disabilità intellettivo-relazionale, si delineano traiettorie che poco hanno a che fare con la parità di diritti: si “collocano” tutti in una stessa opportunità di servizio alla persona, si pensa che la terapia occupazionale sia sufficientemente simile al lavoro, si chiede alla persona di adattarsi alla proposte, che per quanto belle e dignitose, non coincidono esattamente con i bisogni individuali, le progettazioni individuali. Non dico che tutti debbano lavorare per forza, ma dico che dobbiamo ascoltare cosa ci dice la persona. Chiedo spesso ai miei “ragazzi” che cosa vogliono fare da grandi e mi viene detto “lavorare, andare a vivere da solo e avere una ragazza”. Non so se riusciranno a realizzare tutti questi desideri, ma se c’è qualcosa che posso fare per creare i contesti giusti allora lo farò. Non è detto che tutti vogliano lavorare, alcune persone esprimono il bisogno di avere una vita dignitosa, in contesti stimolanti e belli. Altri non hanno la capacità di esprimere ciò che desiderano e più che di lavoro necessitano di opportunità, di qualità della vita bella, ricca e non parcellizzata tra misure e supporti parziali.

SbrisolAut farà la sua parte, come modello replicabile in altre città. Tre sono i punti che caratterizzano il progetto:

  1. Laboratorio di pasticceria secca di prodotti tipici della città: pasticceria secca e non lievitati o dolci freschi, perché è una produzione più semplice e l’idea è che i “pasticceri” siano il più autonomi possibile. Non vuole essere un punto vendita, perché il front office è difficile per le persone autistiche o comunque richiederebbe molto più personale non autistico di quello previsto. Il rapporto professionisti con diagnosi e senza diagnosi è di uno a quattro. Il laboratorio sarà dotato inoltre di supporti tecnologici visivi capaci di organizzare e strutturare la produzione. Il lavoro ripetitivo è adeguato al funzionamento e prevedibile nei suoi vari step. La realizzazione rapida del prodotto è importante per il/la pasticcere autistico, perché incide sul senso di autoefficacia. La gestione dei forni verrà assistita nelle parti più pericolose, mentre nelle altre fasi sarà richiesta autonomia. Il packaging dovrà essere semplice e rapido.
  2. Valorizzazione della città: il prodotto tipico deve parlare della città, della sua storia e della bellezza artistica della città. Possono essere varie le possibilità di valorizzazione, di sicuro l’associazione con i beni storico-artistici può essere un saggio matching da abbinare al lavoro dei ragazzi. In analisi applicata al comportamento si chiama pairing o transfer di funzione stimolo tra la bellezza, di arte e cultura della città, con il laboratorio di pasticceria.
  3. Valorizzazione della sostenibilità: la sbrisolona o comunque il prodotto dolciario deve essere prodotto con materie prime di qualità e possibilmente biologiche, infine le confezioni devono essere quanto più possibili riciclabili e/o biodegradabili.

Questi tre punti possono davvero essere replicati in altre città e il principio di fondo di questa impresa è che il lavoro chiami lavoro ovvero che esista collaborazione tra le imprese che si occupano di tematiche sociali.

La “scommessa”, con la quale è nato questo progetto, è stata indirizzata alla comunità mantovana nella giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, il 2 aprile 2022. Dalla scommessa si è passati alla progettazione e, come spesso accade, amici e conoscenti si stanno unendo in questa sfida ai contesti, fornendo consigli, conoscenze, competenze. SbrisolAut sta destando l’interesse di tanti, perché vuole essere una buona impresa, buona perché produce dolci buoni, buona perché vuole creare opportunità ad una fascia di popolazione “indebolita” e buona perché vuole essere un buon esempio per la comunità intera di come le cose dovrebbero esser disegnate e progettate!

I progetti fanno parte di sistemi complessi, che vanno analizzati e compresi: non è sempre possibile progettare l’inclusione perfetta, ma è possibile avvicinarsi ad essa, raccogliendo impegno, sogni, risorse e sostegno. Esistono passi che vanno intrapresi con gradualità, perché se si vuole agire verso il cambiamento di prospettive, bisogna farlo per step, cercando alleanze e sostenendo la conoscenza della diversità. SbrisolAut è un progetto di valorizzazione del lavoro; è un progetto che crede nell’inclusione anche se è un progetto speciale. SbrisolAut vuole essere la dimostrazione che la neurodiversità è un modo diverso di vedere le cose, ma le opportunità devono essere le stesse!

Un giorno una mamma mi ha scritto: “mettete le ali ai sogni”.

E’ bello pensare che in ogni città ci sia una pasticceria “AUT”!


[1] I.S.S. Istituto Superiore di Sanità (2011) Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti. Linea Guida 21 – Sistema Nazionale per le Linee Guida – Ministero della Salute

[2] American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

[3]  Cfr. V. GEMENTI, “L’Amore Misericordioso al servizio degli handicappati cerebropatici gravissimi”, in Inno alla

vita, p.64.

[4] 9 Cfr. V. GEMENTI, “Dobbiamo essere testimoni del Vangelo nella preghiera e nel servizio”, in Inno alla vita , p.137.

[5] V. GEMENTI, “Felici di essere dono per gli altri”, in UOMO “h”, 1988,8, p.2 e in Inno alla vita, p.184.

[6] V. GEMENTI, “Dopo quindici anni alla Casa del Sole”, in Inno alla vita , PP.48-49.

[7] “Psicologia delle disabilità e dell’inclusione” Soresi Salvatore, 2016; Bologna: Il mulino

[8] Da intervista a  “inclusione e lavoro”, In and Aut festival, 15 maggio 2022

[9] legge 12 marzo 1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”

[10] Seatzu F., La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: diritti garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in “Diritti umani e diritto internazionale”, 2 (2009), pp.

[11] Interrogazione con richiesta di risposta orale O-000017/2021 alla Commissione Articolo 136 del regolamento Lucia Ďuriš Nicholsonová, Rosa Estaràs Ferragut, Pierfrancesco Majorino, Jordi Cañas, Stefania Zambelli, Katrin Langensiepen, José Gusmão a nome della commissione per l’occupazione e gli affari sociali Oggetto: Autismo e occupazione inclusiva