A cura di Salvatore Soresi e Laura Nota, Università degli Studi di Padova
La crisi economico-sociale che in questi ultimi anni ha interessato i paesi occidentali ha comportato la messa in crisi del lavoro anche di coloro che, a livello di ricerca e di applicazione, sono interessati ad occuparsi di come aiutare le persone a trovare un’occupazione, a sceglierla e a progettarla in modo che risulti sufficientemente “dignitosa” e soddisfacente. In epoche di marcata incertezza, come recitava il titolo del XVI Congresso nazionale che la SIO ha organizzato lo scorso anno presso l’Università Milano-Bicocca, si stanno moltiplicando le voci di coloro che sostengono che il modo di pensare alla formazione e al lavoro, come avevamo imparato a fare in passato, è ormai decisamente inadeguato. I grandi numeri che interessano la disoccupazione, il precariato, il lavoro illegale, i tassi di povertà, la non democratica distribuzione della ricchezza, oltre a costituire un’aperta denuncia dei fallimenti delle nostre politiche economiche e sociali e dell’incapacità protettiva dei nostri sistemi di welfare, indicano anche che il mondo della ricerca non è riuscito a dare indicazioni sufficientemente utili sia alla politica che a quanti sono interessati al lavoro e ai supporti per un orientamento di qualità e un’inclusione lavorativa dignitosa per tutti.
Una cosa è certa: non possiamo più, nemmeno all’università e nei nostri laboratori e centri di ricerca, continuare a ragionare e discutere come facevamo anni fa quando credevamo che le persone e i contesti fossero sufficientemente stabili e in una certa qual misura “misurabili” e prevedibili, che gli sviluppi e le evoluzioni avessero andamenti tutto sommato anticipabili e lineari; che esistessero per tutti ampie possibilità di scelta e che il futuro sarebbe stato per le generazioni a venire migliore del passato, con la possibilità di accontentare tutti, studenti e agenzie scolastiche, lavoratori e datori di lavoro, cittadini e stati, persone e imprese. Come ricercatori, come operatori di orientamento, come servizi per l’impiego … credevamo di poter rimanere neutrali … di poter svolgere azioni meramente tecniche, “notarili”, di incontro tra domande e offerte pappagallando un po’ in questo le agenzie matrimoniali… o, se si preferisce, i giudici di pace aventi il compito di “conciliare le controversie” tanto che, prima del 21 novembre 1991, data della legge istitutiva di questa figura, venivano chiamati proprio “giudici conciliatori”.
Ci è venuta in mente questa analogia in quanto, da sempre, l’orientamento e molte riflessioni attorno al lavoro avevano la pretesa di stare nel mezzo, tra le esigenze e le caratteristiche delle persone, le attese e le aspirazioni e bramosie produttive del mercato. Non a caso il modello che dal 1909, anno di fondazione dell’orientamento e della psicologia del lavoro da parte di Parsons, è andato per la maggiore e che ancor oggi viene maggiormente utilizzato (basti vedere cosa stanno facendo a proposito di orientamento il job act e Garanzia Giovani) è tecnicamente definito in termini di matching tra persona ed ambiente o, più popolarmente, dell’uomo giusto al posto giusto. Questa visione del lavoro, della soddisfazione professionale e dello stesso inserimento lavorativo, si concretizzava in operazioni di accaparramento delle persone giuste, a volte chiamate anche idonee, con i requisiti d’accesso necessari, auspicando, in modo “altruistico”, “democratico”, “civile” e “generoso” – ovviamente – che di quelle poco “giuste”, poco “flessibili”, poco “impiegabili” se ne sarebbero dovuti occupare altri come il mondo del non-profit e dell’assistenza, non certamente quelli marcatamente ancorati ai miti dell’eccellenza e della meritocrazia nell’ambito della formazione e del contesto lavorativo ed imprenditoriale.
Per poter far bene la propria parte, la ricerca, e in modo particolare la psicologia differenziale (quella attenta alle differenze e alle variabilità esistenti tra le persone e i contesti) e le scienze della misurazione delle variabili psicologiche (psicometria e teorie e tecniche dei test in primo luogo) si sono date da fare per misurare, confrontare, differenziare, classificare, caratteristiche, variabili, per poter consentire operazioni di scelta, di previsione delle loro possibili, future e diverse possibilità prestazionali. In tal modo e di fatto, nonostante i pochi tentativi di denuncia che si sono registrati attorno agli anni 70, con questo uso della psicologia abbiamo agevolato la realizzazione, sia nei contesti formativi che in quelli lavorativi, di operazioni di selezione e scelta di persone ritenute, di volta in volta, maggiormente idonee e promettenti. Qui la relazione (r) ipotizzata tra Persona ed Ambiente era prevalentemente di tipo lineare … era il passato delle persone a determinare il loro presente in termini attitudinali, motivazionali e valoriali e sarebbe stato il loro presente a predire e determinare, in una certa misura, anche il loro futuro. Per un po’ di tempo, a dir il vero, alle scienze dell’orientamento le cose sono andate abbastanza bene… gli strumenti psicoattitudinali venivano considerati validi ed attendibili e ai professionisti giungevano sovente richieste di collaborazione e di intervento per accrescere la produttività di scuole, università, imprese ed organizzazioni.
Questo paradigma, però, da almeno una ventina di anni a questa parte, è stato sconfessato dalla ricerca psicologica che ha iniziato a pubblicizzare dati che mettevano in dubbio le capacità predittive delle variabili “oggettive” di volta in volta considerate e previlegiate (attitudini ed interessi, ad esempio). Si è dimostrato addirittura che alcune misure qualitative e soggettive, come quelle associate ad esempio alle credenze di efficacia studiate da Bandura, possedevano attributi predittivi superiori. Tutto questo, soprattutto nel lungo termine, ha cominciato a mettere in discussione anche la presunta stabilità attribuita alla personalità e alle sue dimensioni. Così considerando individui appartenenti alla medesima tipologia, aventi storie simili, si è incominciato ad osservare che potevano svilupparsi ulteriori storie e conclusioni diverse anche per quanto concerne la probabilità di realizzarsi in modo soddisfacente in contesti formativi e lavorativi differenti. Anche questi ultimi, dall’altra parte, incominciavano a diventare imprevedibili, incerti, instabili… si è così iniziato ad ipotizzare l’esistenza di relazioni circolari e alla linearità si è presto contrapposta la complessità. Tutto questo ha decretato una fine indecorosa di molta psicotecnica superficiale o almeno di quella ingenua… il “dimmi come sei, ti dirò cosa farai e dove potrai farlo con livelli garantiti di gradimento!” suona da un po’ di tempo come uno slogan da “pubblicità ingannevole”.
Alcuni studi centrati sulle caratteristiche delle persone sono tuttavia continuati come quelli riguardanti i processi decisionali e la rilevanza attribuita a dimensioni che non erano particolarmente interessanti per il mercato del lavoro: pensiamo ad esempio all’autodeterminazione, all’empowerment, all’assertività, al coraggio, alle capacità argomentative, alla resilienza e alla solidarietà…
Nello stesso tempo, a prendere le difese del mercato del lavoro e, forse, anche delle persone, ci hanno pensato osservatori e forum economici internazionali che hanno suggerito la necessità di considerare nuovi costrutti quali quelli della flessibilità, delle soft skills, dell’impiegabilità ed occupabilità delle persone, delle loro competenze e risorse, promuovendo di fatto l’idea che, “per essere scelti”, dovevano diventare persone poliedriche, aventi identità professionali multiple. Gli individui devono diventare capaci di fornire ad altri più appigli al fine di farsi scegliere e di inserirsi in un contesto lavorativo sempre più competitivo (nella storia dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità già negli anni ’70 si parlava di inserimento in contesti protetti e in contesti competitivi considerando paradossalmente questi ultimi come quelli maggiormente inclusivi…. ironia della sorte!).
Ed ecco che oggi nelle nostre riviste di orientamento sono più frequenti rispetto al passato parole come le seguenti:
Flessibilità: si tratta di un attributo cognitivo caratterizzante il pensiero critico, la creatività, la curiosità, la capacità argomentativa, o più prosaicamente la disponibilità a passare, senza porsi e porre problemi, da un contratto di lavoro ad un altro, da un compito familiare ad un altro nuovo, da una sede lavorativa ad un’altra? Ma perché parlando di flessibilità pensiamo soprattutto alle persone e non anche ai contesti? Quelli lavorativi, ad esempio, se fossero più flessibili consentirebbero forse maggiormente il diversity management e l’inclusione.
Competenze e bilanci di competenze… ma per fare cosa? Per vedere chi vince e chi perde? chi viene scelto e chi no? Potrebbe essere interessante cominciare ad utilizzare questa parola con significato diverso: com…petere, per andare verso con, assieme a, magari incontro ad esperienze in cui non vi sono perdenti, ma solo partecipanti al perseguimento di obiettivi, sogni e speranze, comuni. Dobbiamo infatti considerare che gli eccellenti, secondo la curva gaussiana, oscillerebbero tra il 3 e i 4 % della popolazione. E gli altri? Dobbiamo rassegnarci a ciò che al riguardo hanno anticipato alcuni economisti? (homo homini lupus)?
E cosa dire di altri costrutti di moda come quelli dell’employability, e dell’occupability? Dobbiamo suggerire alle persone di diventare più facilmente piegabili? Di essere disposte ad essere al servizio di… di consentire ad alcuni di “avvantaggiarsi” di noi? “Di essere o diventare occupabili…, ma da chi? Ma da quali forze di occupazione”, come ad esempio si chiede Mottana (2017)? … non sarebbe inopportuno stimolare la persone ed essere pronte a difendersi anche dai “colonizzatori”, a diffidare di coloro che elargiscono consigli a proposito di come diventare attraenti ed indispensabili agli occhi degli altri, dei selezionatori e del mercato. Anche tutto questo, a nostro avviso, ha a che fare con l’orientamento, con l’inclusione e con il lavoro dignitoso per tutti. Forse come ricercatori dobbiamo stare all’erta e come formatori ed educatori allargare i nostri orizzonti … dobbiamo però smettere di stare da soli… abbiamo bisogno di condivisione di saperi, di ricerche e riflessioni multidisciplinari, interdisciplinari… dobbiamo smetterla di innalzare confini e barriere tra i nostri settori scientifico-disciplinari, tra i nostri dipartimenti… tra le nostre professioni: quando l’oggetto di riflessione si riferisce a questioni delicate e complesse come quelle del benessere e dell’inclusione nessuno dovrebbe superbamente ritenersi l’unico specialista avente il diritto e le competenze necessarie per occuparsene.
A proposito di lavoro, di orientamento, di come andrebbero gestiti i servizi di supporto alla realizzazione professionale e all’inclusione lavorativa, esistono purtroppo solo ricerche settoriali, di “parte”, studi di psicologi, di sociologi, di economisti, che, tra l’altro, oltre a competere tra di loro, non vanno d’accordo nemmeno con quelli che appartengono alla loro medesima disciplina. Sebbene tutti, in università, condividano l’idea della multidisciplinarietà, di fatto non si riesce a concretizzarla… alcune volte riusciamo a raccogliere in un medesimo volume, nello stesso numero speciale di questa o quella rivista, punti di vista diversi… non abbiamo ancora avuto il piacere di leggere, in una rivista ad elevato impact factor ad esempio, i resoconti di studi condotti da ricercatori afferenti a raggruppamenti disciplinari diversi ed accorgerci che il resoconto del loro lavoro è difficilmente ascrivibile al linguaggio proprio di questa o quella disciplina, che gli autori-collaboratori si sono lasciati contaminare da linguaggi diversi … Ecco… ci piacerebbe fare ricerca con chi usa altri linguaggi, poter leggere ipotesi, descrizioni di soggetti e di metodologie scritte in una sorta di esperanto derivante dalla condivisione di visioni diverse. Questa può essere una via nuova che ci può aiutare a trovare soluzioni originali alle situazioni difficili che stiamo affrontando, stimolando nuove forme di cultura.
Nei confronti di questa giornata di studio nutriamo numerose aspettative: una si riferisce alla speranza di poter contribuire a scuotere un po’ gli studiosi e i ricercatori che si occupano di lavoro, di career counselling, di orientamento e servizi di supporto alla scelta e all’inclusione lavorativa dignitosa per tutti; stimolarli a fare la loro parte e a dimostrare di essere in grado, con rinnovate sensibilità ed aggiornate strumentazioni, di aiutare persone, organizzazioni e contesti, ad individuare, nonostante tutto, con fiducia, nuovi obiettivi da perseguire, opportunità da cogliere rinnovando contemporaneamente le strategie e le tecniche da utilizzare e le proprie proposte.
L’incertezza che caratterizza il nostro presente e il nostro futuro, di fatto, richiede che anche le cosiddette professioni di aiuto prestino particolari attenzioni al tema del ‘cambiamento’ e della complessità che, oltre a scuotere molte delle convinzioni del passato, stanno anche mettendo in discussione l’efficacia delle soluzioni che erano state ideate ed applicate. Tutto questo sta facendo registrare impatti preoccupanti a carico del benessere di molte persone, gruppi e comunità. I disagi e le esclusioni sono in crescita e interessano fasce sempre più consistenti della popolazione, come numerose persone appartenenti alla classe media, che molti paesi erano riusciti fino ad ora a difendere dalle minacce di esclusione dai processi di formazione ed inclusione lavorativa e sociale.
Se quando abbiamo incominciato ad occuparci di queste cose qualcuno ci avesse chiesto se consideravamo dignitoso il lavoro che svolgevamo non avremmo avuto dubbi nel rispondere “certo che si, ne siamo soddisfatti” in quanto ciò che facevamo serviva, soprattutto, a quegli studenti che correvano il rischio di scegliere percorsi formativi e lavorativi poco vantaggiosi per loro e il loro futuro.
Allora, occuparsi di orientamento e di lavoro era tutto sommato facile. Il mondo della ricerca ci aveva fornito un paradigma all’interno del quale leggere i problemi professionali, ci aveva fornito strumenti per ridurre i rischi di errore ed anticipare storie lavorative che avrebbero potuto far registrare soddisfazioni, sia in favore dei nostri clienti che dei nostri committenti.
Ora dobbiamo ricordare che, come ha ben sostenuto Taleb (2008), la reale minaccia non è tanto ciò che può essere predetto, in quanto ci potremmo preparare a fronteggiarlo, ma, soprattutto, ciò non può essere anticipato. Non tutte le variabili in gioco sono conosciute in modo adeguato e non tutte le conseguenze delle azioni possono essere individuate e circoscritti i loro effetti; tutto questo rende più difficile la messa a fuoco di soluzioni in quanto si tratta di riuscire a decodificare fenomeni che richiedono l’accettazione di “sfide associate al fronteggiare la complessità, la velocità e la scarsa prevedibilità del contesto” (Cheung-Judge e Holbeche, 2011, p. 238).
Dobbiamo considerare l’allarme che, tra altri, ha suonato recentemente anche il World Economic Forum di Davos del 2016, dibattendo in Svizzera le conseguenze derivanti dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale “grazie” alla quale un numero sempre più crescente di esseri umani sta per essere sostituito, nel proprio posto di lavoro, da una macchina, senza che nel frattempo si sia riusciti ad immaginare un loro possibile ricollocamento (già da oggi si stima che il 45% dei posti di lavoro potrebbero essere rimpiazzati dall’automazione). Tutto questo può provocare anche un ulteriore incremento dell’indice Gini, relativo alla distanza esistente tra le componenti più ricche e più povere della popolazione, mettendo a rischio la stessa democrazia che come dicono i politologi avrebbe le proprie fondamenta proprio nella classe media.
Affinché l’orientamento, il couselling e il coaching possano assolvere pienamente i loro compiti sono, a nostro avviso, necessarie azioni coraggiose da parte da parte di coloro che li studiano e li praticano e collaborazioni per sperimentare anche modelli sociali innovativi attenti al bene di tutti e ancorati a virtù civiche che considerano di fatto la sostenibilità, la biodiversità, l’eterogeneità e l’unicità alla stregua di valori imprescindibili.
Una cosa è certa: non possiamo più, nemmeno all’università e nei nostri laboratori e centri di ricerca, continuare a ragionare e discutere come facevamo anni fa quando credevamo che le persone e i contesti fossero sufficientemente stabili e in una certa qual misura “misurabili” e prevedibili, che gli sviluppi e le evoluzioni avessero andamenti tutto sommato anticipabili e lineari; che esistessero per tutti ampie possibilità di scelta e che il futuro sarebbe stato per le generazioni a venire migliore del passato, con la possibilità di accontentare tutti, studenti e agenzie scolastiche, lavoratori e datori di lavoro, cittadini e stati, persone e imprese. Come ricercatori, come operatori di orientamento, come servizi per l’impiego … credevamo di poter rimanere neutrali … di poter svolgere azioni meramente tecniche, “notarili”, di incontro tra domande e offerte pappagallando un po’ in questo le agenzie matrimoniali… o, se si preferisce, i giudici di pace aventi il compito di “conciliare le controversie” tanto che, prima del 21 novembre 1991, data della legge istitutiva di questa figura, venivano chiamati proprio “giudici conciliatori”.
Ci è venuta in mente questa analogia in quanto, da sempre, l’orientamento e molte riflessioni attorno al lavoro avevano la pretesa di stare nel mezzo, tra le esigenze e le caratteristiche delle persone, le attese e le aspirazioni e bramosie produttive del mercato. Non a caso il modello che dal 1909, anno di fondazione dell’orientamento e della psicologia del lavoro da parte di Parsons, è andato per la maggiore e che ancor oggi viene maggiormente utilizzato (basti vedere cosa stanno facendo a proposito di orientamento il job act e Garanzia Giovani) è tecnicamente definito in termini di matching tra persona ed ambiente o, più popolarmente, dell’uomo giusto al posto giusto. Questa visione del lavoro, della soddisfazione professionale e dello stesso inserimento lavorativo, si concretizzava in operazioni di accaparramento delle persone giuste, a volte chiamate anche idonee, con i requisiti d’accesso necessari, auspicando, in modo “altruistico”, “democratico”, “civile” e “generoso” – ovviamente – che di quelle poco “giuste”, poco “flessibili”, poco “impiegabili” se ne sarebbero dovuti occupare altri come il mondo del non-profit e dell’assistenza, non certamente quelli marcatamente ancorati ai miti dell’eccellenza e della meritocrazia nell’ambito della formazione e del contesto lavorativo ed imprenditoriale.
Per poter far bene la propria parte, la ricerca, e in modo particolare la psicologia differenziale (quella attenta alle differenze e alle variabilità esistenti tra le persone e i contesti) e le scienze della misurazione delle variabili psicologiche (psicometria e teorie e tecniche dei test in primo luogo) si sono date da fare per misurare, confrontare, differenziare, classificare, caratteristiche, variabili, per poter consentire operazioni di scelta, di previsione delle loro possibili, future e diverse possibilità prestazionali. In tal modo e di fatto, nonostante i pochi tentativi di denuncia che si sono registrati attorno agli anni 70, con questo uso della psicologia abbiamo agevolato la realizzazione, sia nei contesti formativi che in quelli lavorativi, di operazioni di selezione e scelta di persone ritenute, di volta in volta, maggiormente idonee e promettenti. Qui la relazione (r) ipotizzata tra Persona ed Ambiente era prevalentemente di tipo lineare … era il passato delle persone a determinare il loro presente in termini attitudinali, motivazionali e valoriali e sarebbe stato il loro presente a predire e determinare, in una certa misura, anche il loro futuro. Per un po’ di tempo, a dir il vero, alle scienze dell’orientamento le cose sono andate abbastanza bene… gli strumenti psicoattitudinali venivano considerati validi ed attendibili e ai professionisti giungevano sovente richieste di collaborazione e di intervento per accrescere la produttività di scuole, università, imprese ed organizzazioni.
Questo paradigma, però, da almeno una ventina di anni a questa parte, è stato sconfessato dalla ricerca psicologica che ha iniziato a pubblicizzare dati che mettevano in dubbio le capacità predittive delle variabili “oggettive” di volta in volta considerate e previlegiate (attitudini ed interessi, ad esempio). Si è dimostrato addirittura che alcune misure qualitative e soggettive, come quelle associate ad esempio alle credenze di efficacia studiate da Bandura, possedevano attributi predittivi superiori. Tutto questo, soprattutto nel lungo termine, ha cominciato a mettere in discussione anche la presunta stabilità attribuita alla personalità e alle sue dimensioni. Così considerando individui appartenenti alla medesima tipologia, aventi storie simili, si è incominciato ad osservare che potevano svilupparsi ulteriori storie e conclusioni diverse anche per quanto concerne la probabilità di realizzarsi in modo soddisfacente in contesti formativi e lavorativi differenti. Anche questi ultimi, dall’altra parte, incominciavano a diventare imprevedibili, incerti, instabili… si è così iniziato ad ipotizzare l’esistenza di relazioni circolari e alla linearità si è presto contrapposta la complessità. Tutto questo ha decretato una fine indecorosa di molta psicotecnica superficiale o almeno di quella ingenua… il “dimmi come sei, ti dirò cosa farai e dove potrai farlo con livelli garantiti di gradimento!” suona da un po’ di tempo come uno slogan da “pubblicità ingannevole”.
Alcuni studi centrati sulle caratteristiche delle persone sono tuttavia continuati come quelli riguardanti i processi decisionali e la rilevanza attribuita a dimensioni che non erano particolarmente interessanti per il mercato del lavoro: pensiamo ad esempio all’autodeterminazione, all’empowerment, all’assertività, al coraggio, alle capacità argomentative, alla resilienza e alla solidarietà…
Nello stesso tempo, a prendere le difese del mercato del lavoro e, forse, anche delle persone, ci hanno pensato osservatori e forum economici internazionali che hanno suggerito la necessità di considerare nuovi costrutti quali quelli della flessibilità, delle soft skills, dell’impiegabilità ed occupabilità delle persone, delle loro competenze e risorse, promuovendo di fatto l’idea che, “per essere scelti”, dovevano diventare persone poliedriche, aventi identità professionali multiple. Gli individui devono diventare capaci di fornire ad altri più appigli al fine di farsi scegliere e di inserirsi in un contesto lavorativo sempre più competitivo (nella storia dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità già negli anni ’70 si parlava di inserimento in contesti protetti e in contesti competitivi considerando paradossalmente questi ultimi come quelli maggiormente inclusivi…. ironia della sorte!).
Ed ecco che oggi nelle nostre riviste di orientamento sono più frequenti rispetto al passato parole come le seguenti:
Flessibilità: si tratta di un attributo cognitivo caratterizzante il pensiero critico, la creatività, la curiosità, la capacità argomentativa, o più prosaicamente la disponibilità a passare, senza porsi e porre problemi, da un contratto di lavoro ad un altro, da un compito familiare ad un altro nuovo, da una sede lavorativa ad un’altra? Ma perché parlando di flessibilità pensiamo soprattutto alle persone e non anche ai contesti? Quelli lavorativi, ad esempio, se fossero più flessibili consentirebbero forse maggiormente il diversity management e l’inclusione.
Competenze e bilanci di competenze… ma per fare cosa? Per vedere chi vince e chi perde? chi viene scelto e chi no? Potrebbe essere interessante cominciare ad utilizzare questa parola con significato diverso: com…petere, per andare verso con, assieme a, magari incontro ad esperienze in cui non vi sono perdenti, ma solo partecipanti al perseguimento di obiettivi, sogni e speranze, comuni. Dobbiamo infatti considerare che gli eccellenti, secondo la curva gaussiana, oscillerebbero tra il 3 e i 4 % della popolazione. E gli altri? Dobbiamo rassegnarci a ciò che al riguardo hanno anticipato alcuni economisti? (homo homini lupus)?
E cosa dire di altri costrutti di moda come quelli dell’employability, e dell’occupability? Dobbiamo suggerire alle persone di diventare più facilmente piegabili? Di essere disposte ad essere al servizio di… di consentire ad alcuni di “avvantaggiarsi” di noi? “Di essere o diventare occupabili…, ma da chi? Ma da quali forze di occupazione”, come ad esempio si chiede Mottana (2017)? … non sarebbe inopportuno stimolare la persone ed essere pronte a difendersi anche dai “colonizzatori”, a diffidare di coloro che elargiscono consigli a proposito di come diventare attraenti ed indispensabili agli occhi degli altri, dei selezionatori e del mercato. Anche tutto questo, a nostro avviso, ha a che fare con l’orientamento, con l’inclusione e con il lavoro dignitoso per tutti. Forse come ricercatori dobbiamo stare all’erta e come formatori ed educatori allargare i nostri orizzonti … dobbiamo però smettere di stare da soli… abbiamo bisogno di condivisione di saperi, di ricerche e riflessioni multidisciplinari, interdisciplinari… dobbiamo smetterla di innalzare confini e barriere tra i nostri settori scientifico-disciplinari, tra i nostri dipartimenti… tra le nostre professioni: quando l’oggetto di riflessione si riferisce a questioni delicate e complesse come quelle del benessere e dell’inclusione nessuno dovrebbe superbamente ritenersi l’unico specialista avente il diritto e le competenze necessarie per occuparsene.
A proposito di lavoro, di orientamento, di come andrebbero gestiti i servizi di supporto alla realizzazione professionale e all’inclusione lavorativa, esistono purtroppo solo ricerche settoriali, di “parte”, studi di psicologi, di sociologi, di economisti, che, tra l’altro, oltre a competere tra di loro, non vanno d’accordo nemmeno con quelli che appartengono alla loro medesima disciplina. Sebbene tutti, in università, condividano l’idea della multidisciplinarietà, di fatto non si riesce a concretizzarla… alcune volte riusciamo a raccogliere in un medesimo volume, nello stesso numero speciale di questa o quella rivista, punti di vista diversi… non abbiamo ancora avuto il piacere di leggere, in una rivista ad elevato impact factor ad esempio, i resoconti di studi condotti da ricercatori afferenti a raggruppamenti disciplinari diversi ed accorgerci che il resoconto del loro lavoro è difficilmente ascrivibile al linguaggio proprio di questa o quella disciplina, che gli autori-collaboratori si sono lasciati contaminare da linguaggi diversi … Ecco… ci piacerebbe fare ricerca con chi usa altri linguaggi, poter leggere ipotesi, descrizioni di soggetti e di metodologie scritte in una sorta di esperanto derivante dalla condivisione di visioni diverse. Questa può essere una via nuova che ci può aiutare a trovare soluzioni originali alle situazioni difficili che stiamo affrontando, stimolando nuove forme di cultura.
Nei confronti di questa giornata di studio nutriamo numerose aspettative: una si riferisce alla speranza di poter contribuire a scuotere un po’ gli studiosi e i ricercatori che si occupano di lavoro, di career counselling, di orientamento e servizi di supporto alla scelta e all’inclusione lavorativa dignitosa per tutti; stimolarli a fare la loro parte e a dimostrare di essere in grado, con rinnovate sensibilità ed aggiornate strumentazioni, di aiutare persone, organizzazioni e contesti, ad individuare, nonostante tutto, con fiducia, nuovi obiettivi da perseguire, opportunità da cogliere rinnovando contemporaneamente le strategie e le tecniche da utilizzare e le proprie proposte.
L’incertezza che caratterizza il nostro presente e il nostro futuro, di fatto, richiede che anche le cosiddette professioni di aiuto prestino particolari attenzioni al tema del ‘cambiamento’ e della complessità che, oltre a scuotere molte delle convinzioni del passato, stanno anche mettendo in discussione l’efficacia delle soluzioni che erano state ideate ed applicate. Tutto questo sta facendo registrare impatti preoccupanti a carico del benessere di molte persone, gruppi e comunità. I disagi e le esclusioni sono in crescita e interessano fasce sempre più consistenti della popolazione, come numerose persone appartenenti alla classe media, che molti paesi erano riusciti fino ad ora a difendere dalle minacce di esclusione dai processi di formazione ed inclusione lavorativa e sociale.
Se quando abbiamo incominciato ad occuparci di queste cose qualcuno ci avesse chiesto se consideravamo dignitoso il lavoro che svolgevamo non avremmo avuto dubbi nel rispondere “certo che si, ne siamo soddisfatti” in quanto ciò che facevamo serviva, soprattutto, a quegli studenti che correvano il rischio di scegliere percorsi formativi e lavorativi poco vantaggiosi per loro e il loro futuro.
Allora, occuparsi di orientamento e di lavoro era tutto sommato facile. Il mondo della ricerca ci aveva fornito un paradigma all’interno del quale leggere i problemi professionali, ci aveva fornito strumenti per ridurre i rischi di errore ed anticipare storie lavorative che avrebbero potuto far registrare soddisfazioni, sia in favore dei nostri clienti che dei nostri committenti.
Ora dobbiamo ricordare che, come ha ben sostenuto Taleb (2008), la reale minaccia non è tanto ciò che può essere predetto, in quanto ci potremmo preparare a fronteggiarlo, ma, soprattutto, ciò non può essere anticipato. Non tutte le variabili in gioco sono conosciute in modo adeguato e non tutte le conseguenze delle azioni possono essere individuate e circoscritti i loro effetti; tutto questo rende più difficile la messa a fuoco di soluzioni in quanto si tratta di riuscire a decodificare fenomeni che richiedono l’accettazione di “sfide associate al fronteggiare la complessità, la velocità e la scarsa prevedibilità del contesto” (Cheung-Judge e Holbeche, 2011, p. 238).
Dobbiamo considerare l’allarme che, tra altri, ha suonato recentemente anche il World Economic Forum di Davos del 2016, dibattendo in Svizzera le conseguenze derivanti dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale “grazie” alla quale un numero sempre più crescente di esseri umani sta per essere sostituito, nel proprio posto di lavoro, da una macchina, senza che nel frattempo si sia riusciti ad immaginare un loro possibile ricollocamento (già da oggi si stima che il 45% dei posti di lavoro potrebbero essere rimpiazzati dall’automazione). Tutto questo può provocare anche un ulteriore incremento dell’indice Gini, relativo alla distanza esistente tra le componenti più ricche e più povere della popolazione, mettendo a rischio la stessa democrazia che come dicono i politologi avrebbe le proprie fondamenta proprio nella classe media.
Affinché l’orientamento, il couselling e il coaching possano assolvere pienamente i loro compiti sono, a nostro avviso, necessarie azioni coraggiose da parte da parte di coloro che li studiano e li praticano e collaborazioni per sperimentare anche modelli sociali innovativi attenti al bene di tutti e ancorati a virtù civiche che considerano di fatto la sostenibilità, la biodiversità, l’eterogeneità e l’unicità alla stregua di valori imprescindibili.