L’orientamento può cambiare rotta? Può, rinnegando l’homo adaptus, oeconomicus e competens, promuovere l’homo prospectus, visionarius e sapiens?

L’orientamento può cambiare rotta? Può, rinnegando l’homo adaptus, oeconomicus e competens, promuovere l’homo prospectus, visionarius e sapiens? (Prima parte)
Salvatore Soresi, Università di Padova

Introduzione
Da almeno una decina d’anni a questa parte stanno diventando sempre più numerosi i ricercatori che chiedono, invano il più delle volte, a coloro che da noi decidono i programmi di orientamento e gli standard dei servizi per l’impiego e l’inserimento lavorativo, di abbandonare quelle visioni semplicistiche e neoliberaliste che a lungo hanno posto al centro dell’orientamento e dell’occupabilità (o employability come alcuni preferiscono) le caratteristiche individuali e le competenze possedute dalle persone. Si tratta di una visione marcatamente miope per almeno due questioni di fondo che sarebbero altrettanto importanti per la realizzazione di un orientamento metodologicamente corretto ed ancor oggi rilevante da un punto di vista sociale:

  1. il fatto che l’inclusione lavorativa implica soprattutto ‘buone e dignitose’ condizioni di lavoro, la disponibilità di posti di lavoro effettivamente adatti a una vita di qualità, alla partecipazione, alla collaborazione e all’impegno di tutti in favore di una comunità solidale e di uno sviluppo effettivamente equo e sostenibile;
  2. che le competenze, quelle sbandierate dalle Agenzie del lavoro nord americane, riprese pari pari qui da noi spesso senza rifletterci a fondo, al di là di classificazioni più o meno di moda, non sono questioni private, personali, da inserire in un profilo, ma riguardano le relazioni (casuali e non) che regolano gli eventi umani e i nessi esistenti tra le cose, i contesti, gli ambienti, i fatti.

Forse anche noi che invochiamo, e non solo all’interno della SIO e da tempo, un orientamento scientificamente impostato da far praticare, nel contesto pubblico almeno,  solamente a professionisti/e adeguatamente e specificatamente formati/e, dovremo amaramente ammettere di non essere riusciti ad arginare il dilagare di quei luoghi comuni con i quali i nostri mass media, ma anche e purtroppo numerosi, ufficiali e pubblici documenti, trattano le questioni della scelta e della progettazione e dell’inclusione lavorativa.

Con le pagine che seguono, mi propongo essenzialmente di attirare l’attenzione a proposito della ‘nocività’, per un orientamento di qualità ad un futuro equo e sostenibile per tutti, che a mio avviso, andrebbe riconosciuta a quella massiccia presenza, nelle nostre scuole e nei nostri servizi di orientamento, a tanti linguaggi ed espressioni, e quindi anche pratiche, che poco avrebbero a che fare con quei valori che hanno portato molti, da Parson, a Super, a Bandura e via via sino a Savickas e ai membri del  Life Design International Research Group, ad occuparsi di modelli, di procedure e di strumenti di counseling e di orientamento scolastico e professionale.

I peggiori ‘nemici’ di un orientamento di qualità sono, per quanto mi concerne, gli estensori di quei documenti e di quei programmi di orientamento che, in modo più o meno consapevole ed implicito (sono generalmente privi di aggiornati richiami bibliografici), continuano ad ispirarsi ad alcune visioni nocive quali quelle che si focalizzano sui dictat dell’uomo giusto  al posto giusto (homo adaptus), dell’uomo del primato dell’economia di mercato (homo oeconomicus) a scapito della partecipazione e della convivenza sociale, e dell’uomo delle competenze (homo competens) a proposito del valore che va riconosciuto al merito, alle eccellenze e a quelle competenze che potrebbero garantire un futuro di successo.

Un orientamento diverso, di qualità e ‘positivo’ dovrebbe, di contro, insegnare a puntare ad un futuro equo, sostenibile ed inclusivo per tutti in grado di valorizzare e dar spazio ad un homo effettivamente sapiens, che sia al contempo marcatamente previdente e lungimirante (homo prospectus) e generoso e solidale (homo solidalis) di cui mi occuperò nel prossimo numero di questa newsletter. In questo, inizierò con l’occuparmi dei primi tre… e dei primi aggettivi (adaptus, oeconomicus e competens) che accompagnano il ‘sostantivo’ homo che, a mio avviso, riassumo bene le visioni tradizionali dell’orientamento, quelle che ormai, a detta di molti (ad esempio, Savickas et al., 2009; Guichard et al. 2017; Nota & Soresi 2020), dovrebbero essere abbandonate in quanto non più in grado di aiutare effettivamente le persone e i contesti ad assumere responsabilità, a scegliere e a decidere in tempi così incerti e così marcatamente complessi come quelli che stiamo vivendo e che le nuove generazioni, in particolare, si vedono dinnanzi.

Alla luce di ciò, l’idea dell’uomo giusto al posto giusto, il principio per il quale l’essere umano dovrebbe adattarsi alle richieste ambientali in ossequio alle ‘leggi’ del più forte o a quelle del mercato, presentate come inflessibili e immodificabili, unitamente al mito dell’autoimprenditorialità, della globalizzazione e della competizione ‘planetaria’, dovrebbero essere espressioni ed ancoraggi da cui svincolarsi sia da un punto di vista teorico che operativo. Non possiamo più permetterci che visioni ed ideologie marcatamente individualiste e neoliberaliste, anche con il supporto dell’orientamento, ci portino a trascurare proprio quelle persone che, per svariate ragioni, non potranno eccellere e competere per riuscire a svolgere un lavoro effettivamente dignitoso e soddisfacente. Se ci sta a cuore un altro orientamento dobbiamo iniziare a riflettere un po’ sui significati che andrebbero attribuiti a queste espressioni e, di conseguenza, a rifiutare quelle ‘pratiche’ che ad esse si ispirano.

L’uomo giusto al posto giusto
Iniziamo con l’aggettivo adaptus. Nelle discipline evoluzioniste esso ha ovviamente a che fare con l’adattamento, con ciò che favorirebbe, nel nostro pianeta ad esempio, il mantenersi o l’estinguersi di molta ‘biodiversità’; nell’orientamento, e più in generale sul versante dei comportamenti umani, avrebbe a che fare con quelle persone o azioni che, adattandosi, avrebbero maggiori o minori probabilità di essere accettate o respinte.  Molto più prosaicamente e senza andare a scomodare tanti filosofi e pensatori illustri, anche il vocabolario della Treccani ci ricorda che fin dal medioevo, in tempi certamente non allenati a riflettere sul diritto di tutti di scegliere liberamente una professione o un percorso di studio, veniva considerato adatto/a qualcuno o qualcosa in grado di rispondere ad un determinato scopo, che è conveniente, idoneo, adeguato alla circostanza (…), quella persona che ha la capacità, attitudine per qualcosaper questa impresa, per questo lavoro, per questo corso di studio. Si tratta di una definizione che può facilmente far venire in mente a molti psicologi, almeno, il cosiddetto ‘condizionamento classico’, quello ‘rispondente’ di Pavlov (al quale però è bene ricordare è stato contrapposto ben presto, pur muovendosi da assunti almeno in parte comuni, quello ‘operante’ di Skinner che sottolineava anche la componente attiva dell’essere umano e la sua capacità e possibilità di esercitare un certo controllo ed influenzamento nei confronti del suo stesso ambiente di vita). Venendo all’orientamento, l’adaptus richiama tutte quelle teorie che, dai tempi di Parson (1909), si ponevano tra le aspettative delle persone e le richieste degli ambienti lavorativi in una sorta di limbica equidistanza tra i bisogni delle persone e le pretese del mercato formativo e lavorativo. La peggiore versione di ciò, che rasenta una forma di manipolazione, la si osserva quando vengono spacciate per orientamento quelle attività, attuate anche da molti istituti, molte Scuole, Atenei e Centri per l’impiego, finalizzate in modo mascherato ad indicare, a scegliere o a selezionare i ‘rispondenti’, gli idonei, i ‘promettenti’, ovviamente, per il bene di tutti, per non sprecare risorse e, persino, per evitare a coloro che si rigettano, inutili disagi e frustrazioni.

Ricercare l’uomo, o la donna giusta, oggi, in ambito di orientamento, significa, da un punto di vita metodologico, ricorrere prevalentemente, ad operazioni di valutazione normativa e a letture essenzialmente lineari (per approfondimenti vds, Pryor & Bright, 2016.; Soresi & Nota, 2020) che pur nella loro veste scientifica e nella parvenza di neutralità non sono più in grado di catturare alcunché per quanto riguarda il futuro, i progetti, i cambiamenti dei contesti. E le cose sono ancora peggiori quando le previsioni vengono effettuate da algoritmi, che richiamano ciò che sta accadendo a livello di finanza internazionale e di macroecononia, e che, per altro spesso senza alcun fondamento scientifico, forniscono sentenze in merito alle previsioni di occupabilità di possibili candidati a questo o quel lavoro.

Ciò che ci dovrebbe far riflettere è che l’homo adaptus è anche quello che ritroviamo ancora alla base di tanti consigli di orientamento, ma pure di tante operazioni di accertamento dell’idoneità effettuate nel mondo della scuola, che per mandato istituzionale avrebbe il compito di educare, delle sue tante misurazioni ‘in entrata’ che, come l’INVALSI predica, puntano a predire precocemente gli esiti finali, a ‘nominare’ con precisione gli alunni e i contesti socio-economici di provenienza ‘poco adatti’ allo studio e a svolgere lavori che richiederebbero invece impegnativi investimenti formativi.

L’homo adaptus, soprattutto in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo o quando avverte il rischio di poter sprecare energie, opportunità e risorse, cerca alleati a destra e a manca.  Nel mondo dell’economia e della formazione ne trova molti particolarmente disposti ad accompagnarlo e consigliarlo: sono l’homo oeconomicus e l’homo competens.

L’homo oeconomicus
A detta di molti sarebbe stato pensato da Adam Smith  (1723-1790), il padre del pensiero economico moderno, che rappresentò il riferimento pressoché per tutti gli economisti del XVIII e XIX secolo e per tutte quelle politiche economiche che ancor oggi sono propense a promuovere la crescita e lo sviluppo nel mondo tramite una miriade di decisioni economiche di fatto coordinate e dettate dal mercato. Qui la stessa crescita e ricchezza delle nazioni sono viste come determinate dalle operazioni di macroeconomia che avrebbero effetti però anche sul versante politico e sociale ai quali, da filosofo, Adam Smith non poteva essere insensibile. La sua teoria della ‘mano invisibile’ diventò ben presto il cardine della dottrina liberale del laissez faire secondo la quale gli individui nel perseguire i propri interessi personali riuscirebbero persino a generare un ordine sociale e uno sviluppo, seppur in modo non intenzionale, in un contesto libero, più che da assenze di politiche governative, da rendite e da attività improduttive (Mazzucato, 2018).

L’homo oeconomicus, però, non si è accontentato di occuparsi unicamente di commerci e di finanze, ha invaso, con la complicità di molti, anche le scuole ed inondato di sé anche le ipotesi che vengono formulate a proposito del futuro e dello sviluppo che ci attende. La cosa che a mio avviso è più raccapricciante riguarda il fatto che queste visioni riduttive dell’essere umano e del suo futuro sono penetrate anche nelle scuole, ad opera di dirigenze, studiosi, docenti, che si sono lasciati abbagliare dalle lusinghe dei mercati e dall’idea che anche le scuole possano, o addirittura debbono, trasformarsi in aziende, in imprese pronte a competere l’una contro l’altra pur di rimanere produttive e sul mercato della formazione. E tutto questo sta accadendo ancora nonostante numerosi e prestigiosi premi Nobel per l’economia[1] si siano trovati, da alcuni decenni a questa parte, a dover  rimproverare all’homo oeconomicus di avere, persino, una scarsa capacità di valutazione e di previsione dei rischi ai quali si andrebbe incontro. E sta accadendo nonostante pure i dubbi che la recente crisi economica che ha riacceso “sulla linearità propria delle previsioni economiche di un tempo e su quell’idea di ‘homo oeconomicus’ idealizzato come essere perfettamente razionale in grado di padroneggiarne le leggi” (Bischi, 2012, p. 9).

La presunzione ed insaziabilità dell’homo oeconomicus lo hanno spinto, in questi ultimi vent’anni, soprattutto, a invadere ogni sfera della vita umana, da quella della salute e del benessere, a quella del lavoro e della gestione delle risorse umane. Anche Bruni arriva ad affermare che “la scienza economica vive l’esperienza di non avere più strumenti per leggere adeguatamente un mondo che cambia troppo rapidamente rispetto alle capacità di capirlo, e magari di prevedere i comportamenti economici delle persone e delle istituzioni – pur non mancando – le voci di economisti che hanno denunciato l’insufficienza antropologica dell’attuale scienza economica, e hanno cercato di introdurre nuovi paradigmi e nuovi strumenti concettuali, al fine di comprendere meglio il mondo, e magari renderlo più vivibile’ (Bruni, 2012, p. 6).

L’homo competens
L’homo oeconomicus, per la gestione del suo impero ha bisogno di aiutanti: le competenze. Ha bisogno di quello che Magni ha definito ‘ambiguo impero delle competenze’, documentali, certificabili, classificabili, ecc.;  ha bisogno di ‘ministri’, di dirigenti, di quadri intermedi e di cittadini facilmente identificabili dalle competenze possedute, o meglio, da quelle che sono riusciti a farsi certificare da qualche organismo di fiducia dell’homo oeconomicus.

La dipendenza, e non solo culturale dell’homo compentens, da quello oeconomicus traspare nettamente da come le stesse competenze vengono spesso definite e presentate: per tutte e a titolo meramente esemplificativo valga quella del Network DeSeCo[2] (Definition and Selection of Competencies): NB: il virgolettato è loro!

“Le competenze rappresentano la “moneta” della quale è costituito il “capitale umano”, inteso come il “patrimonio potenziale” di una comunità che, in un determinato contesto, si identifica con le “persone” che possono partecipare attivamente al “mercato del lavoro”, e costituisce uno dei prerequisiti non solo della cooperazione sociale e delle attività organizzate, ma anche il fattore economico più determinante. Le competenze sono “le abilità di rispondere con successo e di adempiere a richieste complesse, in un particolare contesto, attivando prerequisiti psicosociali (incluse le facoltà cognitive, quanto quelle non-cognitive)”.

E il tutto ha la pretesa di diventare globale: sempre nella presentazione del DeSeCo si legge infatti che persegue “l’obiettivo di costruire un framework concettuale  condiviso sulle competenze per una loro valutazione attraverso analisi comparative su larga scala (…) sulle comprovate capacità di  utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello  sviluppo professionale e personale”.

Se da un lato non sorprende più di tanto che il mondo neoliberale dell’economia europea ed italiana abbiano accettato le parole e gli inviti di cui sopra come è anche testimoniato dal supporto esercitato in suo favore dalla Fondazione Agnelli[3], meraviglia il fatto che lo abbiano fatto anche i ministeri dell’Istruzione e dell’Università senza batter ciglio nemmeno a  proposito del linguaggio che viene utilizzato e che appartiene chiaramente ad una matrice tecnocratica ed economicista delle politiche formative. Di questo si è accorta anche la ‘filosofa delle capabilities’ di Martha Nussbaum che da  oltre un decennio lamenta la presenza di un sorprendente allineamento nel mondo, da parte di tutti i paesi, nei confronti di una scuola ‘volta a formare produttori efficienti più che cittadini consapevoli’ (2010)  o come stiamo proponendo al Larios con il progetto ‘Stay inclusive, sustainable, curious, courageous, cosmopolitan… ’, persone sapientemente orientate a promuovere un futuro sostenibile ed inclusivo per tutti. Penso sia necessaria una riflessione profonda e una viva collaborazione al superamento di un agire acritico e teso come direbbe la del Rey (2010), ad essere utilizzato dagli apparati istituzionali e dalle tecnocrazie a fini di ‘asserimento’. Richiamo qui anche le dichiarazioni di Angelucci (2019) che associa l’idea di competenza ad un tentativo di addestrare a flessibilità e precarietà’ e, in materia di orientamento, quanto sostiene, recentemente e con toni decisamente più anglosassoni, la più importante associazione statunitense di orientatori e di consulenti scolastici (NCDA – National Career Development Association) con un contributo di Ann Villiersn sulle competenze cosiddette soft. La collega ci allerta a proposito di come vengono descritte ed accorpate le diverse competenze e, in particolare, quelle relative all’ingresso nel mondo del lavoro denunciando il fatto che vengono proposte ‘con una tale confusione di termini che non sorprende che le persone abbiano difficoltà a capire quali siano le loro competenze e di quali possano aver bisogno. (…) È giunto il momento che consulenti, ricercatori, insegnanti, educatori, datori di lavoro e genitori smettano di usare questo termine anche perché non relazionato a contesti e problemi specifici’. Le abilità cosiddette comunicative riguardano  una così ampia gamma di abilità, essenziali per molte professioni, dall’assistenza infermieristica, all’insegnamento, dalla vendita, all’assistenza agli anziani, e per l’insieme degli scambi che avvengono in pressoché tutte le professioni, quando si chiede di lavorare assieme, costruire ed intessere relazioni, assumere prospettive diverse, influenzare, negoziare, fare rete, persuadere, allenare e mediare, dove di soft c’è ben poco. In ambito di orientamento la classificazione tra competenze ‘hard’/’soft’, inoltre, sempre a detta della Villiers, rinforza il falso convincimento che ci sia poco rigore nell’apprendimento e nell’insegnamento delle tematiche emotive, del pensiero critico, dell’assertività, dell’argomentazione e della negoziazione, e che sia possibile considerarle in modo separato e non interrelate e basate sul contesto.

Per noi è importante portare l’attenzione sul fatto che soprattutto oggi, a proposito dell’orientamento, e in particolare di quello che potrebbe essere realizzato nelle scuole, diventa urgente porre sempre più l’attenzione sul fatto che non esistono abilità, competenze e conoscenze applicabili in ogni contesto, in ogni dove, in ogni quando e in ogni con chi, come non esistono strategie risolutive efficaci per qualsiasi tipo di problema e come non è sufficiente nutrire dell’interesse nei confronti di un ambito per riuscire a manifestare, nei confronti dello stesso, competenze e conoscenze adeguate. E l’orientamento stesso, e la realizzazione di programmi preventivi di riduzione dei disagi e di facilitazione dell’inclusione, richiedono solidi riferimenti teorici, preparazione e specifiche competenze professionali.

L’orientamento, soprattutto quello di natura educativa che si propone tra l’altro anche finalità di tipo preventivo nei confronti degli abbandoni e delle dispersioni scolastiche, per assumere una valenza sociale deve imparare a staccarsi da tutto questo e dire ad alta voce che è necessario, doveroso considerare chiaramente che le nostre azioni, il nostro tentare, il nostro agire, la nostra capacità di risolvere problemi, non rappresentano il capitale di un individuo, ma il patrimonio di quegli ambienti e di quelle relazioni che le hanno rese possibili producendo apprendimento e incremento di possibilità. L’orientamento non può limitarsi a certificare le differenze ed anticipare futuri occupazionali  determinati soprattutto dalle disparità esistenti già in entrata. I programmi di orientamento, da questo punto di vista, dovrebbero proporre occasioni di ‘possibilitazione’, come direbbe Heidegger, e di riflessione a proposito delle competenze che, grazie agli altri e alle ‘relazioni’, si è riusciti ad apprendere e a manifestare e che derivando dall’agire con, non rappresentano necessariamente l’armamentario del gareggiare contro, ma soprattutto il ‘chiedere, il dirigersi e l’andare insieme’, le competenze non sono dell’individuo, ma ‘nostre’, appartenenti, cioè, ai contesti che le hanno rese possibili.

L’orientamento che guarda ad oriente, a dove sorge il sole… dall’homo adapus, oeconomicus e competens verso quello sapiens
Se non ci sta bene che l’educazione delle nuove generazioni e il loro orientamento verso un futuro di qualità per tutti traggano ispirazione prevalentemente dall’homo oeconomicus e da quello competens  nelle scuole di ogni ordine  e grado fino alle università, dovremo probabilmente, facendo orientamento cambiare decisamente rotte e visioni e darci da fare, anche come  orientatori e orientatrici, per ostacolare quella che Portera (2016) chiama irrazionalità neoliberalista e che sta diffondendo isolamento, incertezza e insicurezza persino tra gli studenti che frequentano le nostre scuole. L’orientamento deve fare la sua parte affinchè si superi la supremazia di modelli di vita centrati sull’efficientismo, sulla concorrenza, sul consumo illimitato, su un’idea di educazione sempre più gestita ed orientata in modo ‘aziendale’ e secondo logiche puramente economiche? Non è forse il caso di disfarsi di quelle espressioni e di quegli attributi ribadendo a chiare note che “all’educazione – riletta in prospettiva interculturale- e all’orientamento pensato in favore di uno sviluppo equo e sostenibile per tutti, aggiungiamo noi – spetta il compito di contrastare l’avanzata del neoliberalismo, dei processi di reificazione per ridare valore all’uomo e al suo impegno nella comunità per il bene comune” (Portera & Dusi, 2016, p. 12)? Ad occuparsi di questo dovrebbero essere, in modo condiviso e coordinato, l’educazione e l’orientamento che dovrebbero insegnare più precocemente possibile che il futuro equo, sostenibile ed inclusivo per tutti, è quello che immagina l’homo sapiens, quello cioè che si avvale, come vedremo nella seconda parte di questo scritto, della complicità del cosiddetto homo perspectus, quello cioè sia previdente e visionario che altruista e generoso. Ma a loro dedicherò nel prossimo numero della nostra Newsletter la seconda parte di questo contributo.

[1] Come Amartya Sen, nel 1998, Daniel Kahneman e Vernon L. Smith, nel 2002 per arrivare, nel 2006, al premio Nobel per la Pace e ‘banchiere dei poveri’ Muhammadb Yunus e al 2019 a Abhijit Banerjee, Asther Duflo e Michael Kremer in ragione del loro approccio sperimentale alla povertà globale.

[2] Operante sin dal 1997 per conto dell’OCSE con l’obiettivo di fornire un solido quadro concettuale per informare l’identificazione delle competenze chiave, per rafforzare le valutazioni internazionali e contribuire a definire obiettivi generali per i sistemi educativi e l’apprendimento permanente.

[3] Vds: Le competenze. Una mappa per orientarsi, curata da Benadusi e Molina per la Fondazione Agnelli. Il Mulino, 2018.