A cura di Maria Cristina Ginevra
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Diversi contributi e pubblicazioni negli ultimi anni, nell’intento di favorire un linguaggio inclusivo e non discriminatorio, hanno enfatizzato il ruolo delle parole nel veicolare pregiudizi e stereotipi di intensità tali da costituire delle vere barriere all’inclusione e denunciato le espressioni discriminatorie più frequentemente utilizzate nel senso comune e nei contesti professionali (Clarke, Columbia Embury, Knight, & Christensen, 2017; Schrover & Schinkel, 2013). Ancor oggi, infatti, nonostante le prese di posizione ufficiali da parte di organismi internazionali, perdura il ricorso ad espressioni obsolete e offensive che continuano, soprattutto quando sono presenti nei documenti amministrativi e nelle leggi che dovrebbero regolamentare l’inclusione, ad influenzare negativamente la ‘rappresentazione sociale’ di persone e gruppi e a diffondere immagini stigmatizzanti e visioni distorte.
É proprio per questo che mi preme sottolineare alcune minacce nel linguaggio comune e scientifico che possono rinforzare ulteriormente luoghi comuni e pregiudizi.
Linguaggio non specifico. Una minaccia ben sottolineata dall’American Psychological Association (APA, 2010) nel riferirsi a persone e gruppi è quella di ricorrere a parole ed espressioni poco accurate, chiare e ricche di bias in relazione al genere, all’orientamento sessuale, all’appartenenza etnica, alla disabilità, all’età, ecc. A questo riguardo, ad esempio, andrebbe evitato l’uso del maschile (es. gli studenti, i cittadini, gli individui, i gay) e indicare sia uomini che donne (es. uomini e donne, bambini e bambine, ragazzi e ragazze). Sarebbe preferibile sostituire il maschile (es. i diritti dell’uomo, l’uomo primitivo, il corpo dell’uomo) che veicola una rappresentazione dell’uomo come anteposta e prioritaria rispetto a quella della donna, e utilizzare piuttosto termini neutri (es. i diritti della persona/umani, la popolazione primitiva, il corpo umano) (Università di Palermo, 2011). A sua volta, in merito all’identità etnica si dovrebbero evitare termini generici (es. gli Americani) e ricorrere a parole che denotano la specifica nazione o regione di origine (es. le persone che risiedono negli Stati Uniti). L’APA (2010), peraltro, sottolinea che lo stato civile, l’orientamento sessuale, l’identità etnica, l’avere una disabilità, ecc. andrebbero menzionate solo quando ritenute rilevanti e non per ‘rappresentare’ una persona o un gruppo.
Uso di etichette e generalizzazioni. Un’ulteriore minaccia, strettamente connessa a quella sopra descritta, è l’utilizzo di espressioni categoriali e di etichette che determinano una perdita sostanziale di specificità e unicità della persona. Comuni sono a riguardo termini come ‘i gay’, ‘gli immigrati’, ‘i tossici’, o sulla base della disabilità ‘gli autistici’, ‘i sordi’, ‘i ciechi’, ecc. che comportano eccessive generalizzazioni e pregiudizi (APA, 2010; Blind foundation, 2017).
Ricorso ad eufemismi. Come suggerito da Griffo nell’inchiesta ‘Le parole per dirlo’ (2012) sono da evitare tutti quei termini buonisti, come ‘speciale’, ‘eccezionale’, ‘diversamente abile’, che favoriscono pietismo e paternalismo. I termini ‘speciale’, ‘special needs’, ‘con bisogni educativi speciali’ generalmente tendono a veicolare un’emozione di compassione e l’assunzione di comportamenti protettivi, tanto che Kate Snow (2001), una nota giornalista statunitense e madre di un figlio con disabilità, ha raccontato che nelle occasioni in cui ha utilizzato l’espressione “My child has special needs (Mio figlio ha bisogno speciali)” ha generalmente ricevuto una reazione verbale pietistica “Ohhh… I’m so sorry (mi dispiace tanto)”, accompagnata da un ‘empatico’ colpetto sulla spalla. Un discorso a parte merita la parola ‘diversamente abile’, che oltre ad essere satura di un perbenismo di facciata e di politically correct, è scorretta da un punto di vista scientifico come peraltro Patete spiega nella sua inchiesta ‘Le parole per dirlo’ (2012).
Ricorso ad espressioni di ‘pornografia motivazionale’. Oltre ai termini buonisti, andrebbero evitate tutte quelle espressioni che veicolano nell’immaginario collettivo uno sguardo eroico della persona nel superare i limiti delle sue difficoltà. Espressioni come ‘persone che lottano per essere normali’, ‘vittime che affrontano le loro sfide’ sono spesso fonte di ispirazione e di motivazione per quelli che non hanno una condizione di vulnerabilità al fine di stimolare a persistere nel fronteggiare le proprie difficoltà (Baldazzi, 2008).
Ricorso ad un linguaggio medico. Se da un lato l’utilizzo di espressioni prevalentemente mediche, che fanno riferimento implicitamente o esplicitamente ai principali sistemi di classificazione come il DSM o l’ICD, possono essere considerate corrette in contesti clinici o prettamente scientifici, dall’altro espressioni comuni come quelle di ‘malato’, ‘paziente’, ‘caso’, sono da considerarsi inadeguate quando non vengono di fatto erogati interventi di tipo medico e la persona non si trova inserita in una struttura ospedaliera o in un contesto clinico. Analogamente, espressioni quali ‘soffre di’, ‘è affetto da’, ‘è portatore di’, ‘non vedente’ sono da considerarsi non appropriate in quanto implicano il convincimento che ‘il luogo della disabilità’ è la persona che, quasi automaticamente, verrebbe ritenuta ‘malata’, ‘sofferente’ e ‘vittima’ (Soresi, Santilli, Ginevra, & Nota, 2016). A sua volta sarebbe da evitare il ricorso ad etichette diagnostiche come ‘è un DSA’, ‘soggetto autistico’, ecc. che, oltre ad incoraggiare l’attenzione ai deficit e alle difficoltà della persona e la realizzazione di interventi ‘speciali’ e specialistici, in netto contrasto con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002), rischiano di oggettivare la persona con la sua condizione di vulnerabilità.
Utilizzo di espressioni negative. Nel riferirsi a persone e gruppi sono, infine, da evitare tutti quei termini, nomi e aggettivi che possono risultare offensivi (es. ‘extracomunitario’, ‘handicappato’, ecc.), che usano metafore (es. ‘costretto su una sedia a rotelle’) o che favoriscono la permanenza di atteggiamenti di rifiuto e pregiudizi (es. ‘immigrato’, ‘disabile’, ‘barbone’, ‘clandestino’, ‘nero’, ecc.) (APA, 2010; NCDJ, 2015; Redattore sociale, 2013).
Nel concludere questo lavoro, mi preme invitare chi si occupa delle questioni dell’inclusione e ha a cuore le situazioni a rischio di discriminazione (disabilità, genere, povertà, immigrati e immigrazione, minoranze, malattia mentale, ecc.) a denunciare l’abuso dei termini sopra descritti nei loro contesti professionali e nel linguaggio comune, e favorire il diffondersi di espressioni adeguate, che, come suggerito dall’approccio ‘People-first language’, pongono la persona prima della sua condizione di vulnerabilità e descrivono ciò che la persona ‘ha’ e non chi ‘è’ (Haller, 2016; Snow, 2001).
Riferimenti bibliografici
American Psychological Association. (2010). Publication manual of the American Psychological Association (6th ed.). Washington, DC: Author
Baldazzi, L. (2008). Quando la disabilità vola sulle “nuvole” di fumetti e cartoons. Retrieved from http://www.superando.it/2008/08/28/quando-la-disabilita-vola-sulle-nuvole-di-fumetti-e-cartoons/
Blind Foundation (2017). Basic etiquette when meeting a person who is blind or has low vision.https://cdn.auckland.ac.nz/assets/central/about/Basic%20Etiquette%20-%20Blind%20Foundation.pdf
Clarke, L., Columbia Embury, D., Knight, C., & Christensen, J. (2017) People-first Language, Equity, and Inclusion: How do we say it, and why does it matter? Learning Disabilities: A Multidisciplinary Journal, 22(1), 31-35. doi:10.18666/LDMJ-2017-V22-I1-7961
Haller, B. (2016). Journalists should learn to carefully traverse a variety of disability terminology. Retrieved. Retrieved from http://ncdj.org/2016/01/journalists-should-learn-to-carefully-traverse-a-variety-of-disability-terminology/
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Patete, A. (2012). L’inchiesta. Le parole per dirlo. Superabile Magazine, 2, 8-14.Redattore Sociale (2013). Parlare civile. Retrieved from http://www.parlarecivile.it/home.aspx
Schrover, M. & Schinkel, W. (2013). Introduction: the language of inclusion and exclusion in the context of immigration and integration. Ethnic and Racial Studies, (36), 7, 1123-1141
Snow, K. (2001). People First Language. Retrieved from https://www.disabilityisnatural.com/
Snow, K. (2002). The case against “special needs”. Retrieved from https://www.disabilityisnatural.com/
Soresi, S., Santilli, S., Ginevra, M. C., & Nota, L. (2016). Le parole della disabilità e dell’inclusione. In S. Soresi (Ed.), Psicologia delle disabilità e dell’inclusione (pp. 357-373). Bologna: Mulino.
Università degli Studi di Palermo (2011). Manuale di stile. Scrivi bene e parla chiaro. Università degli Studi di Palermo.
World Health Organization (2002). Towards a Common Language for Functioning, Disability and Health. Genève: OMS.