LAVORO DIGNITOSO E INCLUSIONE: alcune riflessioni a margine di due costrutti particolarmente complessi

A cura di: Salvatore Soresi

Sono tre i costrutti attorno ai quali è ruotata la giornata di studio dello scorso 16 febbraio: lavoro dignitoso, inclusione e sviluppo di qualità per tutti.
Di queste cose, da un po’ di anni a questa parte, se ne sta parlando molto, tanto che alcuni nel parlarne ancora, temono di essere o apparire ripetitivi, obsoleti, superficiali, banali ed imprigionati in una serie di luoghi comuni.
Ho avvertito questo pericolo sin da quando, oltre un mese fa, mi è stato chiesto di esprimere un parere a proposito dell’immagine da scegliere per il volantino contenente il programma della giornata seminariale dello scorso 16 febbraio “Lavoro dignitoso e inclusione”. Confesso che sono contento che tra le diverse proposte, la scelta della ‘giuria’ sia caduta su quella che per me indicava molto bene i contenuti e le finalità di questo incontro.
Questo perché quell’immagine richiama l’attività di un lavoratore (il tessitore) che, con professionalità, con azioni intenzionali e mirate, si propone di apportare un cambiamento, un miglioramento, in una realtà dinamica, in un contesto per orientare, come si legge nel volantino, a sviluppi di qualità per tutti.
Mi è piaciuta questa immagine anche perché è stata qui associata ad un’attività di formazione universitaria sottintendendo che per tessere bisogna imparare a farlo, soprattutto quando si desidera dedicarsi ad opere particolarmente importanti ed impegnative.
Un’immagine che evoca un contesto, un con-tessuto e le azioni del tessere, richiama qualcosa di complesso, il risultato di collaborazioni, di intrecci, di combinazioni, di relazioni, di sconfinamenti e sovrapposizioni pur, nella presenza, come si dice in tessitura, di trame e orditi (Bianciardi, 1998)
In un ‘con-testo’ i fili che si incrociano e si rincorrono, che si annodano l’un l’altro, rappresentano rapporti e legami che generano, appunto, un con-textum, come dicevano i latini, qualcosa che è tenuto e costruito assieme, un sistema complesso dove è difficile distinguere un filo dall’altro, o seguire il singolo filo nel suo percorso, nelle sue svolte, nel suo annodarsi, nel suo passare costantemente da un ordito all’altro, da un limite, da un confine, all’altro.
Ma torniamo alle impegnative parole che sono state scelte per questa giornata: lavoro dignitoso, inclusione e sviluppo di qualità per tutti.
Si tratta di costrutti particolarmente impegnativi e complessi in quanto si trovano a dover fare i conti proprio con i loro contesti, con ciò che li circondano, li sostengono e li provocano.
Tutti i lavori, ad esempio, poggiano, derivano, e possono essere descritti da contesti specifici; se si desidera incrementare quelli dignitosi dovremo far sì che si modifichino e cambino anche i posti di lavoro, facendo in modo che quelli poco decenti si trasformino in ‘buoni posti di lavoro’, in posti di lavoro inclusivi.
Ottenere questo, stimolare questi cambiamenti non è semplice in quanto, per definizione, i contesti sono complessi e richiedono, generalmente, consistenti attenzioni politiche e gestionali da un lato, e professionalità, strumenti, scelte e programmi ‘contestualmente dedicati’ ed orientati, dall’altro.
Ma quali competenze, quale profilo dovrebbero possedere quei professionisti che desiderano occuparsi di lavoro dignitoso e di inclusione e di farlo, soprattutto, rimanendo fedeli all’essere ‘contestualmente orientati’?
Per trovare una risposta a questo quesito mi sono aggrappato ad una possibile definizione di professionista che richiama ‘l’attività essenzialmente intellettuale che svolge un lavoratore che tende a produrre ‘in una determinate realtà, in un ambito, in un contesto, significativi miglioramenti tramite ‘ragionate’ ed intenzionali azioni’.
Purtroppo però, il professionista che è stato formato per comportarsi in questo modo, non esiste o, per lo meno, non sono riuscito a trovarlo in quella Classificazione delle professioni che l’Istat, anche sulla scia di altri analoghi Dizionari e documenti europei, che periodicamente aggiorna e propone a  coloro che si occupano di orientamento professionale supporti alla progettazione e all’inserimento lavorativo.
Alcune indicazioni, anche se generiche ed imprecise, possono tuttavia essere trovate nell’introdurre le competenze di coloro che, secondo l’ISTAT ‘sono chiamati ad occuparsi della ricerca di soluzioni a difficoltà e problemi complessi e che, sempre secondo l’Istat, rientrano nel gruppo delle cosiddette “professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione”. Queste professioni, si legge nel manuale dell’ISTAT, richiedono “un elevato livello di conoscenza teorica per analizzare e rappresentare, in ambiti disciplinari specifici, situazioni e problemi complessi, definire le possibili soluzioni e assumere le relative decisioni. Tale livello di conoscenza, si legge ancora, è acquisito attraverso il completamento di percorsi di istruzione universitaria di II livello o post-universitaria o percorsi di apprendimento, anche non formale, di pari complessità”.
La definizione dell’Istat, a ben vedere, enfatizza la necessità dell’incontro tra ricerca ed intervento, tra teoria e pratica, tra il rigore scientifico e i metodi di implementazione e di valutazione dell’efficacia degli interventi.
In considerazione del fatto che quella che cerchiamo è una professione che non c’è, può essere forse opportuno individuare i contesti di applicazione che, in prima approssimazione e per quello che qui ci interessa, potrebbero essere tutti quelli che potenzialmente potrebbero produrre ingiustizie, esclusioni e danni alla qualità della vita delle persone e dei loro habitat, dai contesti dell’educazione e della formazione, a quelli della partecipazione sociale e della salute, del lavoro e dell’economia dello sviluppo e della tutela ambientale.
Essendo interessati ai contesti, questi professionisti, queste professioniste, oltre a dichiarare apertamente e in nome di un preciso codice deontologico da che parte stanno, dovranno essere in grado anche di evidenziare la dinamicità e la complessità dei contesti di cui desiderano occuparsi, di lasciarsi sedurre dalle occasioni di riflessione multi ed interdisciplinare, di realizzare sistematiche operazioni di ri-analisi, di monitoraggio, di verifica e di ricercare continue occasioni di formazione ed aggiornamento.
Per dedicarci ai contesti e produrre in essi significativi cambiamenti abbiamo anche bisogno, in altre parole, di professionisti che non si accontentano, che non si dedicano solo a letture settoriali piene di specialismi e di limiti, di confini, di de-finizioni.
Occupandosi di questioni contestuali e complesse, questi professionisti debbono desiderare di avventurarsi oltre, di provare la brezza dello sconfinare. Debbono considerare i limiti, i confini, e non solo quelli scientifici e culturali, come ostacoli da superare per rendere possibile l’incontrarsi dell’io con il tu, la condivisione, l’interazione tra e con i vicini, coi confinanti.
Questa propensione ad andare oltre, a non lasciarsi inibire da limiti e confini, potrebbe creare a questi professionisti una serie di problemi e minarne anche fortemente la reputazione sociale in quanto, e soprattutto a chi non è esperto di contesti, gli sconfinanti, le persone che non rispettano i confini, possono sembrare scostanti, poco coerenti e poco affidabili.
Questo loro essere ‘fuori’, questa loro propensione ad andare oltre i luoghi comuni, a non accontentarsi di analisi e soluzioni semplici e lineari, e la loro persistenza nel tentare di andare al là dei solchi delimitanti territori e proprietà (andare oltre i liri, si diceva in latino, de-liri in latino) potrebbero farli apparire come dei ‘deliranti’ perché interessandosi dei contesti altrui, si trovano spesso nella necessità di sconfinare, di uscire dai binari, di de-lirare appunto.
Ma attenzione, chi delira può essere allontanato, isolato, additato come poco rispettoso dei limiti altrui… per questo è necessario che facciano rete, che agiscano in gruppo, che, come delle sentinelle, stiano all’allerta e si avvalgano del supporto di altri e numerosi, se non proprio partigiani, almeno possibili alleati.
Quando questi professionisti si trovano ad intervenire, quando lavorano dovrebbero essere facilmente riconoscibili in quanto la loro attenzione pur essendo stata inizialmente stimolata dalla presenza di una difficoltà tende a considerare anche ciò che sta, che è stato, e che sarà attorno, i compagni, le compagne, i colleghi, le colleghe, i familiari, i vicini, gli insegnanti, i datori e le datrici di lavori, ecc. che dovranno esser chiamati a ‘riconoscere’ come propria quella difficoltà e a lasciarsi coinvolgere nel cercare modalità di ridimensionamento delle difficoltà presenti e di prevenzione di quelle future.
Le competenze professionali che il master ‘Inclusione e innovazione sociale’ sta andando alla ricerca non potranno che essere multi-componenziali in quanto ciò che qui ci interessa richiede la mobilitazione di processi complessi che vanno da quelli intrapersonali, a quelli interpersonali, culturali, sociali, ambientali, economici e politico-istituzionali, in quanto ci si attende da questo professionista o da una rete di professionisti capacità di analisi complesse ed agenticità in grado di proporre, stimolare, mobilitare e produrre dinamiche di cambiamento.
Data questa complessità i professionisti e le professioniste interessati ai disagi e ai contesti debbono, di necessità, far tesoro non solo delle indicazioni provenienti da un determinato ambito e settore disciplinare, ma anche di quelle riguardanti aspetti del fare orientamento e progettazione professionale, inclusione e sviluppo, ugualmente utili per coinvolgere e mobilitare persone, contesti, istituzioni e circostanze.
Tra queste figurano certamente:
1. alcune competenze tecnico-strumentali come, ad esempio, quelle proprie del vocational counseling e della career education, che comportano il ricorso a procedure e strumenti di assessment qualitativo e quantitativo, tecniche del colloquio e dell’erogazione di adeguati supporti di tipo psicosociale e psicopedagogico, così come capacità di compiere analisi dettagliate di documenti, norme e programmi e di evidenziare ostacoli, barriere, stereotipi, ecc.;
2. altre di tipo marcatamente relazionali e comunicative come quelle necessarie, ad esempio, all’attivazione di persone, di contesti ed istituzioni e di mobilitazione di agenzie, di gruppi e di organizzazione di adeguate ‘manifestazioni’;
3. quelle necessarie alla realizzazione di interventi di tipo preventivo e formativo, di influenzamento di processi decisionali politici ed istituzionali tramite l’aperta manifestazione di sensibilità sociali, valori ed auspici che ci si propone di condividere con molti altri.
Tra queste competenze figurano pertanto sia quelle relative al come aiutare le persone a raggiungere uno stato almeno sufficiente di benessere sia quelle relative all’agire, nell’interesse delle stesse, sulle determinanti relazionali che appartengono loro (operando con genitori, insegnanti, datori di lavoro, compagni di studio o di lavoro, gruppi di appartenenza, ecc.). Ma dobbiamo ricordare, come diceva qualcuno, che ‘Senza l’identificazione del contesto non si può capire nulla (…) e questo perché ‘il contesto è la matrice dei significati’ nel senso che nessun fatto, nessun comportamento, nessuna relazione può essere spigato e compreso senza considerare l’intreccio delle circostanze entro cui tale fatto emerge e si sviluppa’ (Bateston, 1975, p. 146).
Questo, nei professionisti in questione, fa accrescere la loro consapevolezza sociale e fa ricordare loro che l’intrapersonale è sempre connesso con l’inter-individuale, e che entrambi sono in relazione con le condizioni socio-economico-istituzionali che possono essere responsabili degli svantaggi, delle povertà e delle disuguaglianze che si osservano.
Se continueremo a leggere i disagi e i successi delle persone solo in funzione delle loro specificità, delle loro risorse, dei loro capitali e delle loro competenze, come diceva qualcuno ‘non saremo in grado di capire l’esperienza dell’immigrazione, l’impatto della povertà, l’effetto del convivere in condizioni di sovraffollamento, le situazioni punitive scolastiche, la discriminazione razziale, lo stereotipo sessuale o di genere …’ (Walters, 1990, p. 26) e senza capire, senza cum-prehendere (con la ragione, ma anche con il cuore) non è possibile combattere l’esclusione e lo sfruttamento e promuovere l’inclusione, e il rispetto, la sostenibilità di ogni ipotesi di sviluppo.
Grazie per la vostra com-prensione.

Bibliografia

Bateson, G. (1976) Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.
Bianciardi, M. (1998) Complessità del concetto di contesto. Connessioni, 3, pp. 29-46.
Fruggeri, L. (2014) La competenza psicoterapeutica: un costrutto multi-componenziale. Ricerca Psicoanalitica. Rivista della relazione in psicoanalisi, 1, pp. 14-21.
Soresi, S. (2007) Competenze, formazione e deontologia dei professionisti dell’orientamento. In S. Soresi, a cura di, Orientamento alle scelte, Firenze: Giunti-OS., pp. 239-249
Walters, M. (1990). A feminist perspective in family therapy. In R. J. Perlberg & A. C. Miller eds. Gender and power in families, London: Routledge, pp. 13-33.