LAVORO DIGNITOSO E RICONOSCIMENTO – Spunti filosofici a margine di alcune interviste qualitative a professionisti

A cura di Tiziana Faitini
tiziana.faitini@unitn.it
Nel mio contributo ho abbozzato alcune considerazioni a partire dalla nozione di riconoscimento, nell’intento di problematizzare il concetto di “lavoro dignitoso” e di disegnarne alcuni confini, chiedendomi in particolare in che misura esso rischia di essere funzionale alle relazioni economiche che pure intenderebbe modificare e normare. Nel fare ciò, mi sono proposta di rileggere alla luce di una riflessione teorico-filosofica alcuni spunti emersi da una serie di interviste qualitative a lavoratori e professionisti di settori diversi realizzate in Trentino negli scorsi anni sul tema dell’etica professionale e, più ampiamente, del significato dell’esperienza di lavoro di ciascuno. L’obiettivo della ricerca era quello di riflettere criticamente sulla semantizzazione del lavoro propria della nostra società e, più estesamente, sulla valorizzazione etica e politica del lavoro che caratterizza la società occidentale almeno a partire dall’età moderna – una valorizzazione o, per dirlo altrimenti, una dimensione etica del lavoro che è altresì esplicitamente al centro delle dichiarazioni dell’International Labour Organisation (ILO) sul lavoro dignitoso.
Nelle narrazioni dei professionisti colpisce il ritornare del tema del (mancato) riconoscimento, che ciascuno cerca per sé come professionista o lavoratore. Ad essere cercata è una conferma del proprio valore professionale, personale, cognitivo, relazionale, una valutazione delle proprie competenze e delle proprie attitudini in grado di accrescere la stima di sé. Si cerca, cioè, essenzialmente riconoscimento morale, e non – o non solo – riconoscimento economico-salariale. Tuttavia, nelle narrazioni esso molto spesso viene semantizzato con riferimento al solo piano economico-salariale o al mercato – questo mercato da cui si sente che il proprio profilo professionale dipende, che forma i desiderata, che esprime preferenze –, secondo un riferimento del tutto ovvio e comune, che sottende l’applicazione della razionalità economica quantitativa e che, tuttavia, risulta problematico sotto il profilo teorico. La logica del riconoscimento si applica infatti, basta l’Hegel della Fenomenologia a ricordarlo, a quella soggettività personale che si costituisce attraverso il rapporto dialettico con l’altro, ovvero nella relazione intersoggettiva. Riconoscimento, cioè, è sempre riconoscimento da parte di qualcuno ed è un processo essenziale nella costituzione di soggettività e di identità personale, ma, per portare ad una compiuta costituzione di soggettività e di identità, può darsi solo in forma biunivoca – pur anche conflittuale, ma reciproca. Le narrazioni ricordano invece come ci si aspetti, implicitamente, che dal capitale – questo soggetto sociale astratto, impersonale, non identitario e mosso da una logica puramente quantitativa che, Marx insegna, si è incuneato al centro della nostra storia – possa venire il riconoscimento dell’alterità, quando invece esso non può ammettere alterità (ossia, differenza qualitativa), ma solo standardizzazione misurabile e calcolabile (ossia, differenza quantitativa). Quello che il lavoratore cerca è il riconoscimento della propria differenza qualitativa, ma non è rapportandosi al mercato e alla logica quantitativa che lo può ottenere: non è attraverso il mercato che si può verificare il riconoscimento morale, cioè un processo di costituzione di soggettività concreta, ma attraverso la relazione intersoggettiva. D’altro canto, se parlare di riconoscimento da parte del mercato significa adottare la razionalità economica quantitativa astratta, è diffusa la percezione che, laddove quella razionalità è meno immediatamente presente, manchi ogni valorizzazione dell’attività lavorativa del singolo – fatto che viene vissuto con esistenziale pesantezza specie da chi lavora nel settore pubblico, fuori dal confronto immediato col mercato, e che si sente spesso frustrato nelle proprie competenze. La dinamica descritta ci porta insomma di fronte a un’aporia: il lavoratore si aspetta riconoscimento morale, ma chiede e, nella migliore delle ipotesi, ottiene riconoscimento economico – e se questo è vero, ne risulta che l’aspettativa del lavoratore è destinata allo scacco.
Ora, ciò non succede forse perché chiediamo troppo al lavoro? Questo scacco, questa costante, ma frustrata richiesta di riconoscimento avanzata da professionisti e lavoratori aiuta a ricordare l’esistenza della soggettività concreta che, per così dire, eccede costantemente le relazioni produttive. Aiuta, cioè, a ridimensionare il lavoro e a ricordare che esso non esaurisce tutta la sfera dell’agire umano, né coincide con la sola emancipazione. Del resto, se si guarda al divenire storico del lavoro – del suo concetto come della sua prassi – lo si vede racchiuso nella stessa aporia, in una dialettica senza superamento. D’un lato il versante emancipativo del lavoro: la graduale valorizzazione del lavoro che si compie nel passaggio tra Medioevo e età moderna è la storia del tramontare di un’organizzazione sociale basata su una incolmabile differenza gerarchica di stato e dell’affidamento del destino di ciascuno, con la relativa posizione sociopolitica, alla propria attività lavorativa. Dall’altro, il suo versante alienante e astrattivo, che vede l’imposizione del modello-lavoro ad ogni attività e l’astrazione dell’agire umano, che viene considerato solo in relazione al risvolto economico-acquisitivo, ovvero alla sua scambiabilità. La medesima dialettica insuperata si applica al concetto di “lavoro dignitoso”, di cui si sottolinea volentieri la portata emancipativa, dimenticandone per contro l’ineliminabile controcanto alienante e astrattivo. Tende a fare ciò una certa retorica costruita attorno al concetto di “lavoro dignitoso”, che informa anche alcuni documenti dell’ILO. Tuttavia dimenticarsi di ciò significa rendere il concetto di “lavoro dignitoso” un elemento funzionale al paradigma lavoristico e alla riduzione dell’uomo e del cittadino al “lavoratore”.
Rispetto a ciò, sarebbero naturalmente molte le questioni e i dati di realtà globali da considerare, ma mi limito a un’ulteriore considerazione sul nesso tra cittadinanza e lavoro. Mentre l’economia dell’immateriale nella società dell’informazione si basa su una produzione sempre più disconnessa dal lavoro e dalla dimensione materiale, e, in ogni caso, su un lavoro che è sempre più frequentemente precario, instabile, a ridotte tutele sociali, l’inclusione sociale e politica continua a rimanere connessa all’esercizio di un lavoro misurabile e scambiabile – e questo nesso sostanzia anche lo stesso concetto di “lavoro dignitoso” nella definizione che ne dà l’ILO. Per questo sembra necessario tornare a riflettere sulla relazione che sussiste tra lavoro ed inclusione, ovvero tra il fatto di avere un impiego e quello di occupare un posto riconosciuto nella società, tra soggetto come produttore di ricchezza e soggetto come titolare di diritti. Lo si deve fare anzitutto per acquisirne maggior consapevolezza, lasciandosi attraversare dalla difficoltà di pensare e concretizzare un fondamento sostitutivo rispetto al lavoro ma, al tempo stesso, tenendo conto del sovraccarico di aspettative nei confronti di quell’attività socialmente organizzata che è il lavoro, un sovraccarico che emerge tanto nelle richieste di riconoscimento quanto nel concetto di “lavoro dignitoso”. Non è secondario, a questo fine, ricordare che l’incipit della nostra costituzione, frutto di uno strenuo dibattito tra i padri costituenti, parla di una “Repubblica fondata sul lavoro” e non di una “Repubblica di lavoratori”: che essa sia fondata sul lavoro esclude un fondamento proprietario o nobiliare per la cittadinanza e la dignità sociale, ma esclude altresì che sia il solo fatto di essere lavoratori a garantire tale cittadinanza e tale dignità. Il concetto di “lavoro dignitoso” trova qui fondamento, ma anche confine.