La violenza in una relazione amorosa: evoluzione trasformativa di un paradigma

A cura di Lorenzo Bertani

La violenza tra le mura domestiche è commessa per più del 90% dei casi dagli uomini nei confronti delle donne. Ogni anno in Italia vengono uccise 130/150 donne, quasi tutte da partner o ex o fratelli, padri o figli. Inoltre quasi un terzo delle donne in età adulta subisce violenza grave almeno una volta nella propria vita (Istat 2007). Sulla base di indagini condotte sui dati relativi ai reati commessi negli Stati dell’UE, statistiche comunitarie segnalano come la violenza in Europa rappresenti la prima causa di morte delle donne fra i 16 e i 50 anni; in Italia, si ritiene che ogni tre morti violente, una riguardi donne uccise dal marito, convivente o fidanzato, ovvero all’interno di un rapporto di “fiducia”, dentro le mura domestiche. Emerge immediatamente che il problema è sociale e culturale: l’OMS rileva come le violenze subite siano addirittura, in alcune società, caratterizzate da una visione più tradizionale dei ruoli specifici di genere, considerate una conseguenza del diritto dell’uomo sulla donna e per questo culturalmente giustificate.

La violenza domestica per molto tempo è stata percepita come un affare privato e non come un reato contro la persona, per cui sono ancora poche le ricerche e le pubblicazioni realizzate in lingua italiana, che si occupano di questa problematica ma le percezioni e le rappresentazioni sociali relative alla violenza domestica stanno cominciando a cambiare. Come appena detto, prima si riteneva che si trattasse di un fenomeno privato, da relegare nel segreto delle mura domestiche[1] , nei fatti la violenza in ambito di coppia è un fenomeno alquanto ampio, tocca tutti i ceti sociali, tutte le culture e, soprattutto, non riguarda esclusivamente, come soggetti violenti, gli uomini ma anche le donne, e può svilupparsi nelle relazioni omoaffettive.

La violenza domestica è in larga parte dovuta a sistemi di attribuzione sociale dei tradizionali ruoli maschili e femminili che vedono lui dominante e lei passiva e accondiscendente. Tali stereotipi contribuiscono a rendere la donna meno propensa a denunciare e a riconoscersi come vittima di una relazione che va ben al di là dell’ambiente familiare protetto e sicuro, che vede la donna custode del focolare domestico, ancora così ancorato nell’immaginario collettivo. Dal punto di vista delle relazioni familiari, è importante tener presente che il verificarsi di una rottura relazionale, che è un vero lutto può destrutturare o rivoluzionare l’intero assetto familiare e le relazioni tra i relativi membri, e quando tale nuovo assetto non è funzionale alla risoluzione del lutto determina una serie notevole di sofferenze, complicate anche dal tacito accordo, un deviante e destruente ‘patto del silenzio’ che può ostacolare le possibilità della famiglia e delle singole persone di proseguire in un cammino di dialogo evolutivo e di ripresa di una vita normale, se non peggio.

All’interno delle mura domestiche si possono celare dinamiche comportamentali e psicologiche di qualsiasi genere. Raramente veniamo a conoscenza di episodi in cui sono le donne a vessare gli uomini. Non per questo, ribadisco, dobbiamo escluderne l’esistenza. Si parla molto poco di uomini vittime di violenza domestica, molto probabilmente perché questi sono restii a chiedere un aiuto[2]. La conoscenza del fenomeno è ridotta perché per molti è tabù, soprattutto in Europa, al contrario del nuovo continente. Inoltre, in linea con gli stereotipi correnti più sopra riportati, la paura di non essere creduti e di mancare della propria virilità porta gli uomini a non chiedere aiuto. Un’altra tendenza è quella di credere che la violenza agita da una donna nei confronti di un uomo sia molto meno grave rispetto a quando è l’uomo ad essere violento.

Per chiunque sia il carnefice all’interno della coppia, la violenza dovrebbe essere sempre duramente condannata e ritenuta “non normale”. La violenza non osteggiata porta a gravi conseguenze di dipendenze patologiche, scarsa autostima, isolamento. Per non parlare di quelle che si hanno su eventuali figli che crescerebbero con modelli violenti da prendere in esempio. Sarebbero quindi futuri adulti a loro volta potenziali vittime o carnefici[3].

La violenza sull’uomo spesso viene taciuta per una forma di vergogna perché viene ritenuto strano che sia una donna a prevaricare il suo compagno, e per un uomo è davvero umiliante sentirsi sopraffatto da una donna ed essere incapace, spesso per amore dei figli, a reagire a questa forma di violenza. La violenza al femminile è diversa da quella maschile: è meno istintiva e più ragionata, è una tipo di violenza più psicologica che fisica, fatta di piccole azioni quotidiane logoranti e vendette che hanno come unica conseguenza intaccare l’equilibrio psicologico dell’uomo[4].

Ciò che ci dimentichiamo di considerare, assumendo come vera questa concettualizzazione, è che, in realtà, il nucleo centrale della violenza domestica è costituito dal bisogno di controllo che un partner desidera esercitare sull’altro e questo, ovviamente, prescinde dal genere biologico di appartenenza così come dall’orientamento sessuale[5]. Così, si tende a escludere, quasi ‘a priori’, la possibilità che una relazione omoaffettiva possa essere violenta[6]. Solo perché il rapporto è “tra pari” il rischio è che si continui a negare o a non “vedere” il problema, impedendo così di porre la giusta attenzione e la creazione di servizi idonei e specializzati. La prima conseguenza è che la vittima possa sentirsi sola a gestire la relazione violenta, contribuendo ad alimentare il clima di solitudine e incomprensione che talvolta caratterizza la vita delle persone omosessuali. Gli stereotipi intorno alla violenza e l’identificazione di un abuso con il rapporto maschio-femmina portano molto spesso gay e lesbiche a non riconoscere, loro per primi, quello che sta accadendo alla loro relazione: a non interpretare, cioè, l’aggressività del partner come un vero e proprio maltrattamento, come emerge infatti  dall’analisi del sociologo statunitense Murray Straus, dove afferma che la violazione delle norme di genere stereotipate assunte dal paradigma eterosessuale coinvolto nella violenza si esplica in una sorta di bi-direzionalità della violenza stessa, vale a dire che se un uomo non può difendersi da un altro uomo, è debole; se si ribella e reagisce, non è più una vittima ma può essere considerato un autore.

Perché una relazione finita si strutturi intorno a modalità sane, mature, amorevoli, diviene importante incontrare l’altro sul piano di realtà, nella singolarità dei tratti che lo individuano e separano da sé, aprendo un dialogo con quelle caratteristiche, diversità e mancanze, causa di disillusione e disincanto. È questa la parte più visibilmente difficile ma creativa della relazione, quella parte a volte molto dolorosa da cui può, però, scaturire una nuova, generativa possibilità relazionale.

RIFLESSIONI

Vorrei concludere questo mio lavoro con una proposta che si accosta, come possibile percorso redentivo, di un grande pensatore del Novecento, Paul Ricoeur. Il filosofo francese si è occupato del tema del perdono nella direzione di accettare la sfida di non ‘dirsi’ da soli il proprio passato e la propria identità, perché, finché sarà così, la frustrazione non potrà che rimanere nel proprio specchio di dolore. Accettare la sfida di ascoltarsi raccontare dagli altri, che – dall’esterno – possono vedere diversamente da noi la nostra identità e leggere diversamente da noi il nostro passato. Forse per qualcuno non sono solo la vittima. Forse per qualcuno non sono solo il carnefice. Forse qualcuno è capace veramente di pensare che io “valgo più dei miei atti”: di quelli colpevolmente agiti e di quelli tragicamente subìti. Imparare a raccontarsi altrimenti, ascoltando il racconto degli altri e considerando il racconto degli altri fondamentale, almeno quanto quello che noi facciamo di noi stessi.

Nessun individuo è da solo il centro della propria storia. Lo scambio dei racconti è la via che può consentire il recupero di una diversa memoria, di una diversa identità e quindi di un diverso futuro. È realmente possibile perdonare se stessi, il proprio passato, le proprie incapacità per ricostruirsi?

Da soli no, non possiamo perdonarci, sarebbe un illusorio movimento circolare, sterile ‘tra sé e sé’, è necessaria invece la mediazione costruttrice della coscienza della vittima. Ma se la vittima e il carnefice sono la stessa persona? Se sono io (incapace di perdonare, perdonarmi, andare avanti) che ho ferito e sto ferendo me stesso? Se sono io che devo perdonare me stesso? Anche in questo caso è necessario un ‘terzo’ che faccia da mediatore tra i due, tra l’io offeso e l’io offensore. Anche qui ci sono ‘due’ che si scontrano: il passato da perdonare, il presente che non vuole perdonare. Anche qui c’è una vittima (l’io presente, ferito per colpa delle scelte dell’io del passato) e un carnefice (l’io del passato che ha ‘generato’, nella sua chiusura e nel suo blocco le chiusure dell’io del presente). L’io del presente può liberarsi solo con l’oblio attivo che dice al se stesso che è stato: io ti perdono. L’io del presente può cominciare una nuova storia solo se dice alla storia che è stata: non eri l’unica possibilità, non sei l’unica possibilità. Nella storia delle singole persone questo è uno degli affascinanti compiti che toccano all’amore: sanare le ferite del passato, risvegliare il senso del presente, riaprire comunque la progettualità del futuro[7]. La grandezza di questa proposta si dispiega nel fatto che questo cammino redentivo può offrire una possibilità ai soggetti violenti come ai soggetti vittima di violenza.

La violenza, credo, non sia una malattia, ma un modo di porsi nelle relazioni che fa leva su un’importante componente culturale e per questo richiede un approccio metodologico unitario, psicologico e sociale, umano che sappia cogliere ed esplorare il fenomeno in tutte le sue variegate sfaccettature, senza tralasciare alcun aspetto magari politicamente scomodo, al fine di impostare le più opportune strategie di prevenzione, di intervento e di sostegno per tutti i soggetti coinvolti.


[1] Istituto Nazionale di Statistica, La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia – Anno 2006, www.istat.it

[2] Corry C. E., Fiebert M. S., Pizzey E., Controlling Domestic Violence Against Men, 2002, www.ejfi.org/DV/dv-9.htm

[3] Bifulco A., Moran P., Il bambino maltrattato, pag.139-154, Astrolabio, Roma, 2007   

[4] Macrì P.G., Abo Loha Y., Gallino G., Gascò S., Manzari C., Mastriani V., Nestola F., Pezzuolo S., Rotoli G., Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. VI – N. 3 – Settembre-Dicembre, 2012 www.vittimologia.it/rivista/articolo_macri_et_al_2012-03.pdf

[5] Stemple L., Meyer I. H., The Sexual Victimization of Men in America: New Data Challenge Old Assumptions, Am J Public Health, 2014, Vol. 104, No. 6     

[6] Patella L., Esiste la violenza nelle coppie omosessuali?, 2018, www.gaypost.it

[7] Ricoeur P., Ricordare dimenticare perdonare L’enigma del passato, Il Mulino, Milano, 2012