L’ orientamento che non è più quello di una volta. Riflessioni e strumenti per prendersi cura del futuro

Il libro “L’orientamento che non è più quello di una volta. Riflessioni e strumenti per prendersi cura del futuro” (a cura di S. Soresi) è stato pensato e scritto in piena pandemia COVID-19 che, come ormai ampiamente riconosciuto, ha messo in evidenza, amplificandole, tutte le contraddizioni e le disuguaglianze che, da tempo, molti studiosi della qualità della vita delle persone e del nostro pianeta avevano previsto, puntualmente pubblicizzato e invitato a combattere.

Di nuove visioni e nuove pratiche ha bisogno anche l’orientamento che, per essere rilevante a proposito delle difficoltà sulle quali la pandemia ha avuto buon gioco (ingiustizie, disuguaglianze, sfruttamenti, precarietà, ecc.) deve, a sua volta, avere il coraggio di non essere più quello di una volta, di non utilizzare più slogan ed affermazioni del passato, e proporre ipotesi originali ed utilizzando materiali e metodologie innovative per fornire il proprio contributo alla costruzione di futuri sostenibili ed equi per tutti e per il nostro pianeta.

In queste sue imprese chi si occupa di orientamento può oggi vantare di avere dalla propria parte molti e prestigiosi studiosi e ricercatori e, tra questi, persino tanti illustri conoscitori delle ‘leggi del mercato’ e dell’economia, come i Nobel Amartya Sen, che lo ha ricevuto nel 1998, Stiglitz, nel 2001, e Duflo, Banerjee e Kremer, nel 2019, in ragione dei loro contributi in favore della lotta alle povertà e alle disuguaglianze sociali. I professionisti di un orientamento che non è più quello di una volta possono inoltre citare, come alleate, anche tutte quelle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, di tematiche della salute, della formazione, della partecipazione alla vita sociale, di sviluppo sostenibile e di difesa dell’ambiente che, anche se da prospettive diverse, considerano necessario ed urgente stimolare e realizzare il cambiamento con ancoraggi teorici e strumentazioni in grado di aiutare le persone e i loro contesti a prendersi cura del futuro affinché risulti effettivamente e per tutti migliore e di qualità.

Per farsi un’idea di queste nuove ed ampiamente condivise consapevolezze può essere sufficiente sfogliare i numerosissimi documenti che, anche nel corso di questo ultimo decennio, sono stati divulgati nel mondo per stimolare l’assunzione di comportamenti maggiormente rispettosi della dignità delle persone e dei loro ambienti e dei doveri e delle responsabilità che tutti dovremmo assumerci anche nei confronti della qualità della vita di cui potranno godere le future generazioni. È quello che sostengono anche i curatori di un recente report dell’Oxford committee for Famine Relief (Oxfam, 2021) che, dato che tra di noi sta diffondendosi un vero e proprio ‘Virus della Disuguaglianza’, senza mezzi termini hanno affermano che per ricucire un mondo lacerato dal Coronavirus è necessario promuovere:

  1. una maggior equità tramite una lotta serrata alle disuguaglianze che deve essere posta al centro dell’impegno anche per il salvataggio economico e la ripresa;
  2. un’economia dal volto decisamente più umano che respinga la vecchia ricetta dell’austerità drastica e insostenibile che consente ancora che siano la ricchezza, il genere o la razza a determinare la salute o l’istruzione delle persone;
  3. un mondo libero da ogni forma di sfruttamento, con salari dignitosi per tutti, maggiore sicurezza nel e del lavoro e il rispetto dei diritti dei lavoratori;
  4. un mondo in cui i ricchi paghino la giusta quota di imposte in quanto ‘l’imposizione progressiva’ va considerata la pietra angolare di ogni equa ripresa dalla crisi;
  5. un mondo che garantisca la sicurezza climatica che sta già distruggendo i mezzi di sussistenza   mietendo vittime nelle comunità più povere, in quelle economicamente escluse e storicamente oppresse e nelle quali le donne e le persone più vulnerabili continuano ad essere quelle maggiormente colpite.

Anche dal mondo dell’economia, come anticipato, da un po’ di tempo a questa parte si sono fatte sentire voci invocanti cambiamenti di prospettiva e azioni concrete in favore di una maggiore regolamentazione dei mercati e della finanza. Tra quelle che hanno attirato maggiormente l’attenzione di alcuni ricercatori impegnati nell’orientamento e nel career counseling (vds, Hooley e Sultana, 2018; Nota et al. 2020) c’è certamente anche quella di Kete Raworth (2017): le sue supercitate sette ‘mosse’ per uno sviluppo sostenibile, in effetti, possono essere utilizzate anche per precisare di cosa dovrebbe occuparsi un nuovo orientamento alle scelte scolastiche e professionali, svincolandosi da tutte quelle concezioni della crescita economica e dello sviluppo che, ricorrendo a visioni semplicistiche e lineari del futuro, non indicano come possono essere concretamente ridotte le disuguaglianze, favorite la partecipazione, la condivisione, la centralità del capitale sociale.

Questa modalità di ragionare a proposito della supremazia del bene comune e pubblico, su quello individuale e privato, potrebbero ridimensionare quegli egoismi che, anche a detta della studiosa di Oxford, porterebbero a cedere alla tentazione ‘economica’ di leggere e provare a risolvere i problemi, compresi quelli dell’orientamento si potrebbe aggiungere, ricorrendo ad operazioni matematiche di bilancio tra costi e benefici, tra entrate ed uscite, tra domande ed offerte. Ci sarebbe bisogno, invece, di avvicinare le persone, e in modo particolare le nuove generazioni, per sensibilizzarle ed educarle ad una nuova concezione del lavoro e della produzione, stimolando la condivisione dell’idea che attraverso il proprio impegno professionale si possa e debba favorire la crescita e la conservazione del benessere dei contesti di vita, della promozione del diritto a vivere in ambienti sani ed inclusivi, la diffusione della collaborazione, della conoscenza, della valorizzazione della diversità, della distribuzione della ricchezza, dell’economia circolare e rigenerativa, e così via. In questa prospettiva l’economia della ciambella’ chiede anche all’orientamento, di rimarcare il diritto-dovere di tutti a ricoprire a pieno titolo un ruolo di promotori attivi di un futuro di qualità, ricordando che è necessario porsi anche dei limiti soprattutto quando si è in procinto di avanzare ipotesi per il nostro sviluppo e la nostra crescita.

Questi limiti si riferiscono soprattutto al controllo di quanto e di come le scelte e i comportamenti umani potrebbero produrre condizioni di vita poco dignitose anche a causa di attività lavorative ed occupazionali pensate e scelte unicamente in termini di reddito personale e produzione. Se da un lato   infatti opportuno e doveroso favorire l’avvio di consapevoli processi decisionali pensati nell’ottica della realizzazione delle aspirazioni individuali, si dovrebbe convenire e far ritenere che non è più tollerabile che questo avvenga a vantaggio di pochi e a spese del benessere sociale ed ambientale. Tutte le scienze interessate alla qualità del futuro, d’altra parte, sembrano chiederci proprio questo, di stare all’erta, di non pensare solamente a vantaggi personali ed immediati, ma di guardare anche più lontano e a ciò che potrebbe influenzare significativamente la qualità della vita anche delle generazioni a venire. Il profiling e il maching non possono più riguardare soltanto il presente o una  piccola e vicina ‘dilatazione’ tra l’altro facilmente anticipabile: sono chiamati a confrontarsi con gli scenari del futuro. Non è più tempo di politiche attive del lavoro e dei servizi di placement, anche universitari, che diano attenzione solo a ciò che è stato già così ampiamente determinato dal passato, da non essere più modificabile, enfatizzando soltanto la necessità di essere realistici, concreti e pronti a scendere in campo per affrontare qualsiasi tipo di competizione viga attualmente.

L’orientamento che non vuole essere più quello di una volta e che ha stimolato la stesura di questo volume è certamente molto esigente, impegnativo, ‘costoso’. Per questo non è indicato per persone  che, come quelle che si rivolgono ai Centri per l’impiego e a servizi di collocamento lavorativo per ottenere un lavoro – spesso qualsiasi – pur di riuscire a sopravvivere ad un presente avverso, e nemmeno per quei giovani che vengono invitati, per aver accesso al percorso formativo desiderato, ad accettare le tante iniziative di tipo informativo, ad utilizzare le tante ‘piattaforme’ iscrivendosi anche, dietro pagamento o non, per esercitarsi sulle risponde ai test, sui ‘trucchi’ per superare le prove di ammissione o sulle modalità con cui risultare vincenti nei colloqui di selezione.

Tutto questo è di pertinenza di chi occupa di selezione ed accompagnamento al lavoro che non  possono che avvalersi di dispositivi, più o meno sofisticati, di valutazione da realizzare velocemente nelle fasi di transizione o in vista di scadenze burocratico-amministrative che sanciscono i termini delle procedure di accesso alla formazione e al lavoro. L’orientamento che non vuole essere più quello  di una volta, invece, interviene molto tempo prima che alle persone si chieda di scegliere percorsi scolastici ed attività lavorative, quando possono ancora dare tempo ai tempi necessari alla riflessività, alla condivisione di principi e valori come può avvenire nell’ambito di contesti educativi in grado di organizzare esperienze profondamente sociali, educative e ricche di opportunità di apprendimento.  Qui, a differenza di contesti che guardano essenzialmente dalla parte della produttività e dell’eccellenza, non dovrebbero trovare spazio procedure standardizzate e tempi amministrativi, esperienze solo individuali e private proprio perché ciò che interessa è riflettere, ipotizzare,  immaginare, progettare… tutti processi che richiedono personalizzazioni ed interazioni significative che difficilmente possono trovar spazio in quei contesti, uffici ed agenzie nei quali si attribuisce valore alla produzione di profili e tipologie, alle valutazioni e graduatorie di idoneità ed impiegabilità certamente interessanti per le imprese bisognose di lavoratori da assumere o di studenti  a iscrivere. Anche l’orientamento, anche quello che qui si auspica, può essere interessato alle capacità, ai saperi e alle competenze delle persone e a come si pongono nei confronti degli altri e del mondo, compreso ovviamente anche quello della formazione e del lavoro, ma qui si tenderà soprattutto a riconoscerne e valorizzarne la natura sociale e relazionale enfatizzando anche quelle che possono essere impiegate, se non proprio soprattutto, fuori dai mercati e dagli accertamenti più o meno formali delle agenzie formative.

L’orientamento, pertanto, va proposto essenzialmente a chi può trarre vantaggi da esso e tra questi figurano certamente almeno a tre tipologie di possibili destinatari.

La prima è composta da chi ha aspirazioni da approfondire e realizzare, a chi, in altri termini, può permettersi di dedicare tempo alla riflessione, alla sperimentazione, all’apprendimento e non è pressato dal ‘dover ad ogni costo e immediatamente trovare un lavoro. I suoi ‘clienti’ privilegiati sono gli studenti delle scuole obbligatorie, quelli che non hanno ancora l’età per lavorare e, tra questi, soprattutto quelli che vanno protetti dai rischi di precoci abbandoni scolastici ed illegali inserimenti lavorativi. A questi, e più precocemente possibile e in contesti  educativi, l’orientamento parla dei significati del lavoro, di come questo si inserisce tra i diversi  emi della vita, di come lo si impara, di quando e a quali condizioni può essere considerato dignitoso, prestigioso, utile, ecc.; si può ad esempio, parlare e far riflettere, e anche per questo ci vuole tempo e pazienza, sul cosiddetto diritto al lavoro attivando  consapevolezze condivise tramite laboratori e dibattiti a proposito dell’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti Umani («Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la  disoccupazione»), degli articoli 6 e 7 del Patto Internazionale sui Diritti Economici Sociali e Culturali che parlano di programmi di orientamento e formazione tecnica e professionale, del  diritto di tutti di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro (un equo salario ed un’uguale remunerazione per uno stesso lavoro, senza distinzione di alcun genere; la sicurezza e l’igiene del lavoro; il riposo, le ferie periodiche retribuite, ecc.) e dell’articolo 4 della nostra stessa Costituzione che oltre a ricordare che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» sembra aver spostato un’idea prettamente sociale del lavoro, che, cioè, si lavora anche per gli altri, per un bene e un benessere comune («Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale  ella società»).

La seconda tipologia si riferisce a persone che sperimentano il disagio a causa di quelli che, in sintonia con alcuni classici studi di career education e di career counseling, potremmo chiamare ‘problemi formativi’, in particolare alti livelli di indecisione sulla scelta da compiere nonostante la presenza di una volontà e di una motivazione ad investire in formazione (vds Savickas e Jarjduora, 1991, Nota e Soresi, 1999; oppure ‘problemi professionali’ se in presenza di opzioni lavorative similmente disponibili, attraenti e vantaggiose si sperimentano  difficoltà a causa della presenza di elementi conflittuali, di informazioni contraddittorie o di  carenze a carico delle strategie risolutive da porre in essere (Vds, ad es. Peterson et. al. 1996; Mann e Friedman, 2002; Gati, 2013);

L’ultima tipologia di destinatari è composta da chi è interessato (per la propria formazione o a causa delle difficoltà che si trova a dover gestire, o per i ruoli che sta ricoprendo, a quelli che vengono definiti wicked problems che oltre a minacciare gravemente la qualità della nostra esistenza, appaiono, per molti versi, addirittura irrisolvibili. Facendo orientamento, aspirando ad esempio a contribuire anche tramite le scelte e le progettazioni professionali al raggiungimento degli obiettivi 2030 indicati dalle Nazioni Unite in favore di uno sviluppo sostenibile, ci si può trovare di fronte a problemi di questa natura e portata. La riduzione delle disuguaglianze, di ogni forma di sfruttamento, della povertà, delle discriminazioni e l’incremento dell’equità, della qualità della vita del nostro pianeta, della pace, dell’accesso alla formazione e al lavoro dignitoso, sono tutti esempi eccellenti di problemi ‘malvagi’ che si potrebbero considerare, come stanno facendo ad esempio anche i ricercatori e le ricercatrici del La.R.I.O.S (vds Nota, Soresi, Di Maggio et.al. 2021) nelle azioni a supporto delle scelte, delle rappresentazioni e costruzioni del futuro. In questi contesti, pur avendoli ben in mente, è forse però opportuno non parlare esplicitamente di problemi malvagi o, addirittura di problemi super-malvagi come fanno, ad esempio, Levin, Cashore, Bernstein Auld (2012) questo, soprattutto, per evitare di stimolare rinunce e sensi di impotenza che tenderebbero a sorgere con una certa facilità quando ci si avvicina a tematiche complesse come quelle appena ricordate. L’orientamento richiede entusiasmo, speranza, quella che anche a detta di Paolo di Tarso, si riferisce a ciò che ancora non si vede, ma che si attende con perseveranza. Per sostenere la speranza e il desiderio di andare verso il futuro potremmo forse preferire parlare di problemi complessi e sfidanti, più che ‘malvagi e cattivi’, che invitano maggiormente a riflettere e a cercare alleati e collaborazioni dato che le competenze settoriali e specialistiche, con la loro tendenza a produrre conoscenze frammentarie ed autoreferenziali, difficilmente riusciranno ad indicare persino provvisorie soluzioni. I problemi sfidanti che ci stanno a cuore, al di là di ogni possibile classificazione e tassonomia, sembrano dirci che le soluzioni sono difficili persino da immaginare e che non potranno essere così distinte e chiare come desidererebbero i decisori razionali. I problemi del futuro oltre a richiedere connessioni tra le diverse discipline e professionalità richiedono atteggiamenti e comportamenti di ricerca e riflessione trascendenti i confini delle aree disciplinari per consentire effettivamente un valido collegamento con ciò che è reale nel mondo e un marcato interesse nei confronti dei suoi problemi più che delle sue discipline. «Solo un approccio transdisciplinare – diceva tanti anni fa Roseneld (1992) – può fornire un quadro teorico sistematico e completo per la denuncia e l’analisi dei fattori sociali, economici, politici, ambientali e istituzionali che influenzano la salute e il benessere umano» (p. 1343). È   per questo che è necessario che questa visione venga sostenuta, praticata ed insegnata in modo che si impari e ci si alleni ad aspettarsi e a rispettare prospettive e visioni multiple soprattutto in presenza di problemi e difficoltà particolarmente complesse come quelli che con tanta nitidezza ci sta presentando la pandemia.

Anche l’orientamento, quello che non vuole essere confuso con la selezione e l’accompagnamento al lavoro, che intende occuparsi di ‘minacce ed emergenze, di problemi difficili e sfidanti proprio perché intriganti, pasticciati, ambigui, complicati e complessi, ha  bisogno di transdisciplinarietà, di ricercatori e professionisti pronti all’unione, al pensare connettendosi con…, a condividere disagi e tentativi, a ricercare e agire assieme, perché le minacce nei confronti del benessere e di un futuro di qualità richiedono che si condivida concretamente l’idea che, in ogni caso, il totale è sempre meglio della somma delle parti. Quello che in altre parole si auspica è che l’orientamento possa avvalersi sempre più di ‘pensatori transdisciplinari’, di ‘visionari-pragmatici’ che, come coloro che si occupano di innovazione e sviluppo sostenibile, come dice Susan Drake, producono cambiamenti anche attraverso gli atteggiamenti, i comportamenti, le ‘abitudini’ intenzionali di ricerca e creazione di connessioni che manifestano e pongono in essere anche nel loro quotidiano lavoro quotidiano. Si auspica pertanto un orientamento socialmente rilevante che non può accontentarsi di contribuire al potenziamento dell’autonomia, l’autodeterminazione e dell’empowerment delle singole persone, a che è interessato anche alla qualità dei contesti, degli ambienti e a stimolare l’assunzione di responsabilità anche in favore delle generazioni che si succederanno nel tempo.

L’orientamento a cui è dedicato questo volume oltre a stare dalla parte della transdisciplinarietà sta, anche, senza se e senza ma, dalla parte dei diritti e dei valori umani ed è pronto ad indignarsi ogni qualvolta intravvede il rischio di essere confuso con altre pratiche interessate alla scelta e alle selezione di persone, praticato in modo semplicistico e superficiale da ‘operatori’ non  adeguatamente formati o strumentalizzato da quanti, per propri interessi e concezioni non riesce a sottrarsi da quella ‘competition law’ che sembra continuare a regolare i criteri guida di tanto ‘mercato’ della formazione e del lavoro. L’orientamento che questo volume promuove, da questo punto di vista, va un po’ controcorrente e chiede che vengano lasciati alla selezione, al ‘collocamento’ e alle politiche attive del lavoro il compito di porsi dalla parte del ‘diritto della concorrenza’, di matrice prettamente privatistico-mercantile che potrebbe essere interessato, come osserva Lucarelli, ‘a trasformare il cittadino in utente e/o consumatore, in una logica (…) che appare più servente alle libertà economiche, piuttosto che al principio di eguaglianza.’ (Lucarelli, 2019, p. 18).

Questo orientamento, inoltre, cerca di non cedere più alle lusinghe del quel neo ed ordoliberismo che sta trasformando le nostre società in quelle che Collier (2020) definisce società dei rottweiler, di quei cani, cioè, che i cinofili descrivono come particolarmente adatti alla guardia e al tiro.
L’orientamento che non vuole essere più quello di una volta necessita però, anche di ‘nuovi’ orientatori, di ‘pensatori trasdisciplinari, come già anticipato, di professionisti adeguatamente formati e che utilizzano il loro un sapere, come dice anche Botturi (2012), che è costantemente attento a tutti quei generosi feedback che la ricerca e la pratica sono chiamati a scambiarsi in modo che tra la teoria e l’applicazione, tra università e servizi si consolidino relazioni e complicità  n funzione di un agire comune per un futuro di qualità per tutti e per il nostro pianeta. In modo da essere in grado di praticare effettivamente ed efficacemente quel realismo utopico, quel pragmatismo-visionario che dovrebbe caratterizzare il dire e il fare di coloro che intendono occuparsi di benessere e di futuro. Quello che si auspica che venga praticato, è pertanto un orientamento ‘visionario, impegnato e libero’ che comporterà sicuramente impegni e costi  rilevanti, risorse ed autentiche ed eterogenee collaborazioni essendo interessato come si è certato di dire in queste pagine, al cambiamento e al miglioramento di persone e contesti… è per questo che non può essere ‘sbrigativo’ e costare poco, a differenza di quelle prestazioni che si riducono, con l’ausilio magari di sofisticati algoritmi, a pubblicizzare indici di congruenza e di occupabilità.

C’è bisogno di emancipare l’orientamento, di liberarlo da una serie di vincoli temporali e spaziali, è necessario liberarlo dalla schiavitù dei mercati della formazione e del lavoro, dalle pressioni assillanti del presente. Si tratta di affermazioni sicuramente forti ed impegnative, ma certamente non sono più intriganti ed impegnative di quelle pronunciate dieci anni fa da Pepe Mujica a Rio de Janeiro, il 21 giugno 2012 in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite in quello che era stato definito ‘il migliore discorso del mondo’. Rivolgendosi, in particolare, ai capi di stato come lui, ma anche a tutti i governanti e a tutti i popoli della terra l’allora Presidente dell’Uruguay chiedeva di riflettere semplicemente su alcune questioni di fondo: «se si stesse governando la globalizzazione o se è la globalizzazione a governarci?; se fosse possibile parlare di solidarietà e di unione in un’economia basata su una concorrenza spietata ? Se siamo venuti al mondo per  svilupparci soltanto, o se veniamo alla vita per cercare di essere felici […] concludendo, di fatto, che il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e sostenere una civiltà dell’usa e getta? […] è questo il destino della vita umana? (…) Lo sviluppo deve essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, delle cure ai figli, dell’avere amici, dell’avere il necessario. […] Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente naturale si chiama “felicità umana”. Grazie»