Immigrazione e career counseling

Immigrazione e career counseling
Marina Sgariboldi, Ana Cristina Fernandez Bermudez e Ilaria Di Maggio

Le politiche dei tempi attuali e gli sviluppi dell’economia e delle società stanno mettendo a dura prova la vita di numerose persone, favorendo fenomeni diffusi di vulnerabilizzazione e processi di immigrazione (Hardoon, & Slater, 2015; Nota, Mascia & Pievani, 2019). Di fatto, povertà, conflitti sociali, catastrofi, violazione dei diritti umani, rappresentano un insieme di ‘fattori di espulsione’ (push factors) che tendono a spingere sempre più persone a mettere a rischio la propria incolumità e a cambiare la propria progettazione di vita, pur di raggiungere nazioni dove sono presenti i cosiddetti ‘fattori di attrazione’ (pull factors), ovvero un insieme di circostanze più favorevoli, quali ad esempio: stabilità politica, modelli di vita dignitosi, maggiore benessere, migliori servizi, rispetto dei diritti umani ecc. (Parkins, 2010; Baudassé, Bazillier, & Issifou, 2018).

Nonostante la rilevanza dei fattori di espulsione e di attrazione, la migrazione risulta un fenomeno complesso, in cui intervengono anche altri elementi che vanno presi in considerazione. Düvell (2004) sottolinea come spesso i processi migratori siano utili al fine di rimarcare le differenze in un’ottica di deriva ideologica neoliberale. In questa prospettiva le differenze non sono viste come un valore per il progresso sociale. Di frequente le differenze fra generi, razze e nazioni si riflettono nella segmentazione dei mercati del lavoro e nelle condizioni di vita che vengono fatte sperimentare, così, le distinzioni sociali e geografiche diventano necessarie ed utili ai fini di un controllo politico ed economico. Di fatto, le politiche migratorie sono orientate a mantenere, controllare e gestire i confini, introducendo meccanismi per il controllo dei movimenti di persone. Sembra emergere ormai chiaramente che la ‘libertà di movimento’ esiste solo per le élites globali, i professionisti altamente qualificati e i turisti benestanti, mentre alle persone con vulnerabilità e in condizione di povertà è impedito qualsiasi spostamento (Mulvey & Davidson, 2019). O meglio, coloro i quali tentano di oltrepassare confini politici e geografici, pur non appartenendo ai suddetti gruppi privilegiati, si trovano ad affrontare un’esperienza pesante, in grado di mettere a repentaglio la loro stessa vita.

Nel 2018 secondo i dati pubblicati dell’UNCHR circa 70,8 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. In Italia nel 2019, al 22 luglio, sono arrivati attraverso il mar Mediterraneo 3.353 migranti (Unhcr) che, per un paese di 60 milioni e 359 mila persone (dati Istat 2018), rappresentano lo 0,005% della popolazione. Tutti questi spostamenti rappresentano delle incognite, viaggi della speranza densi di difficoltà e pericoli, sia per la salute fisica che psicologica delle persone.

Come denunciato da Amnesty International (2019) per quanto il numero di arrivi pare sia in calo rispetto al 2017, le morti in mare, in particolare nella traversata del Mediterraneo, sembrano essere aumentate fra il 2018 e il 2019, a causa di politiche nazionali ed europee inefficaci. Secondo i dati diffusi dall’UNHCR, finora si stimano 637 morti in mare nel tentativo di fare la traversata Libia-Italia; 1.041 complessivamente le vittime nel Mediterraneo. Anche se i ‘numeri’ delle persone che hanno perso la vita nella traversata spesso vengono comunicati e resi pubblici così come le foto di gommoni e navi, molto meno si sa delle percosse, degli stupri, delle torture, della vendita e dell’acquisto di esseri umani a cui molti viaggiatori sono sottoposti (Press, 2017).

Inoltre, se la traversata ha successo, spesso queste stesse persone si trovano a dover fronteggiare ulteriori condizioni difficili, associate a sfide che minacciano i bisogni primari di sopravvivenza e di appartenenza nel paese ospitante (Schultheiss, WattsSterland, & O’Neill, 2011; Marfleet, 2006, O’Neill, 2009, O’Neill, 2010). Ad esempio, la mancanza di consapevolezza e utilizzo nei paesi di destinazione delle competenze, delle qualifiche e delle esperienze delle persone con storie di immigrazione lascia queste stesse persone impreparate ad esprimere la piena estensione delle loro conoscenze e della loro istruzione, e può rendere difficile la possibilità che esse possano contribuire all’economia locale o nazionale con il loro pieno potenziale (Watts, Sterland, & McLoughlin, 2007). Così, la disoccupazione e la sottoccupazione diventano temi dominanti nella vita delle persone con storie d’immigrazione, in quanto è loro richiesto di inserirsi in sistemi e procedure esistenti con cui non hanno familiarità. In aggiunta, atteggiamenti negativi e pregiudizi minano ulteriormente le competenze, le conoscenze e l’autoefficacia delle persone con storie di immigrazione, implementando esclusione, odio sociale e condizioni di vita, per queste persone, sempre più indignitose (Watts, Sterland, & McLoughlin, 2007).

I professionisti dell’orientamento e della progettazione professionale dovrebbero assumersi la responsabilità di farsi carico di queste situazioni e, come sempre più spesso emerge nella letteratura internazionale recente (Guichard & Pouyaud, 2018; Nota & Soresi, 2018), dovrebbero farsi carico di aiutare queste persone a valorizzare i propri punti di forza, anche individuando le barriere contestuali che riducono la possibilità di costruire una vita e un futuro dignitosi, agendo per far emergere anche a livello sociale questi temi e promuovendo politiche volte alla solidarietà (Hooley,  Sultana, & Thomsen, 2018; Soresi, 2018).

A questo riguardo, sono diversi gli autori che hanno focalizzato la propria attenzione su narrazioni di vita coraggiose di persone con vulnerabilità. In quest’ottica lo scopo è quello, da un lato, di comprendere meglio le barriere contestuali e personali che i soggetti in questione si trovano a sperimentare, dall’altro, di poter analizzare le strategie di fronteggiamento attuate dagli stessi e dunque porre l’accento sui loro punti di forza, al fine di attuare azioni di riprogettazione professionale e personale di vita futura (Tasker, 2002; Litton, 1999; Clancy, Balteskard, Perander, & Mahler, 2015; Di Maggio et al., 2019; Santilli et al., in press). Per esempio, Di Maggio et al. (2019) e Santilli et al., (in press), in sintonia con altri studiosi (es. Clancy et al., 2015), hanno mostrato come dare la possibilità a persone con vulnerabilità di poter narrare le proprie personali storie di coraggio può rappresentare un’importante risorsa per restituire loro dignità, spingerle ad un processo di coscientizzazione e ridurre il peso percepito delle responsabilità individuali. Inoltre, per quanto i riguarda i professionisti, essi possono mettere a punto modalità per far conoscere socialmente la voce di queste persone e stimolare forme di ripensamento delle condizioni lavorative e sociali.

Pochi studi hanno analizzato le narrazioni di persone con storie di immigrazione in un’ottica di coraggio. Sebbene autori come Press (2017), Brachet (2012), Brigden e Mainwaring (2016), Mainwaring e Brigden (2016) e Schapendonk e Steel (2014) non fossero interessati ad approfondire le storie di coraggio, ma bensì le narrazioni del viaggio migratorio e le sfide ad esso associate, dopo le analisi dei racconti, sono arrivati a concludere che il coraggio, per le persone con storie di immigrazione, si caratterizza come una risorsa utile per poter sopravvivere. Risultati simili sono emersi anche da un recente studio condotto da Santilli et al. (in press), che analizzando le diverse storie di coraggio di persone con storie di immigrazione, hanno mostrato come le stesse si trovino a dover fronteggiare con coraggio numerose sfide che minano la loro integrità e il loro benessere fisico e psicologico non solo nel loro paese di origine e durante il viaggio, ma anche all’arrivo nel paese ospitante. Tali risultati hanno portato gli stessi autori a sostenere come molto probabilmente le persone che decidono di intraprendere il viaggio, oltre a possedere i soldi necessari, sono anche quelle più coraggiose e dotate delle più consistenti risorse psicologiche per poter fronteggiare queste numerose difficoltà. Inoltre, come sottolineato dagli autori dello studio, tali risultati dovrebbero essere presi in considerazione quando ci si trova a riflettere sul perché coloro che intraprendono il viaggio siano ancora la minoranza e anche, e soprattutto, su quanto le barriere emerse da gestire una dopo l’altra, senza una sorta di tregua psicologica, siano frutto di scelte deliberate nei paesi occidentali per costruire dei ‘deterrenti naturali’ al fenomeno migratorio.

In conclusione possiamo  affermare che, come mostrato da questi ultimi studi (Santilli et al., in press, Press, 2017), supportare le persone con storie di immigrazione a dare voce alle forme di deumanizzazione, discriminazione e violazione di diritti umani subiti può essere molto utile durante percorsi di orientamento e progettazione professionale, sia per aiutare le persone a rileggere le proprie storie anche in un’ottica contestuale al fine di ridurre processi di colpevolizzazione, sia per favorire una maggiore comprensione del contesto sociale e politico in cui l’immigrazione prende forma al fine di informare meglio i responsabili politici (le istituzioni/i governi) che possono definire politiche di accoglienza nei paesi ospitanti.  A sua volta, porre l’accento sulle storie di coraggio in sessioni di orientamento e progettazione professionale può consentire di fare emergere il ruolo agentico della persona nel fronteggiare numerose sfide e questo potrebbe aiutarla ad implementare un’immagine più positiva di sé (Toporek & Cohen, 2017) e a contribuire a diffondere un’immagine maggiormente favorevole delle persone con storie di immigrazione nel paese ospitante.