Con i tempi che corrono ha ancora senso parlare di orientamento? Sì, se anche l’orientamento non sarà più quello di una volta!

di Salvatore Soresi

Per molto tempo si è ritenuto che sia le persone che i contesti scolastici fossero abbastanza stabili, e che, almeno nei Paesi più ricchi, esistessero per tutti ampie possibilità di scelta. Eravamo abituati a constatare che, dopo i tempi della formazione seguivano, senza tante attese, quelli dell’inserimento lavorativo e che tra formazione e lavoro esistevano relazioni di tipo essenzialmente lineari.
Pensavamo che esistesse addirittura il problema della scelta tra opzioni lavorative diverse, e l’orientamento si proponeva di aiutare le persone a scegliere bene… a evitare di scartare opzioni maggiormente attraenti o vantaggiose. L’orientamento ha così studiato e messo a punto criteri e strumenti in grado di analizzare le relazioni esistenti tra domanda e offerta, promettendo a tutti, alle persone e agli ambienti, dosi di reciproca soddisfazione.
È in questa direzione, con l’obiettivo di accontentare tutti, studenti e agenzie scolastiche, lavoratori e datori di lavoro, cittadini e Stati, persone e imprese, che le ricerche in materia di orientamento e le loro applicazioni si sono sviluppate.
Purtroppo i tempi sono cambiati … le prospettive di crescita e di sviluppo, in molti Paesi, sono radicalmente diminuite, e da più parti si sente dire che ci attendono tempi duri, che il futuro non è più quello di una volta.
Questa espressione è stata introdotta da Paul Valéry (1931) quando si trovò ad affermare che “l’avenir est comme le reste: il n’est plus ce qu’il était” ed è stata fatta propria anche da molti sociologi, politologi ed economisti … ma è stata utilizzata anche da Mark Strand come titolo di una sua raccolta di poesie … e persino da un famoso gruppo musicale, i REM, che hanno chiesto a viva voce “Dov’è finito il futuro che ci avevano promesso?” (Where is the future we were promised?).
ricerca

Il futuro non è più quello di una volta è un’espressione che piace molto anche ai giovani. Eccone due esempi.

  1. La scritta qui riprodotta nella figura sottostante a sinistra è comparsa circa un anno fa nella metropolitana di Milano. Mi piace perché i colori e il movimento che contiene mi hanno fatto pensare che, forse, c’è un forte desiderio di presenza e di esserci creativamente e da protagonista.
  2. Questa che invece compare a destra, è stata vista a Roma durante una manifestazione di studenti che protestavano a proposito dei tagli al finanziamento pubblico della cultura, della ricerca e dell’università.

ricerca

Nonostante il grigiore dominante, mi piace in quanto nella frase… “ma non è un motivo per farselo rubare” c’è, secondo me, un po’ di ciò che dovrà imparare a fare l’orientamento del futuro: supportare specialmente le nuove generazioni affinché si attrezzino perché il futuro non venga loro tolto… affinché lo possano guardare ancora con speranza e fiducia. Si tratterà ovviamente di un orientamento che non potrà più essere neutrale, indifferente, o limitarsi a guardare, valutare o dare suggerimenti e consigli.

Ma il futuro perché non è più quello di una volta?

Specialmente perché, a differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa, ora sembra imprevedibile, instabile, incerto e minaccioso e stiamo passando… “da una prima modernità costruita sull’idea di sicurezza, di certezza, di spazi definiti per la persona e la comunità, a una seconda modernità, caratterizzata da insicurezza, incertezza e caduta di ogni confine” (Beck, 2000).

Il futuro non sarà più quello di una volta, perché anche il lavoro non sarà più lo stesso: già all’inizio di questo secolo l’agenzia statunitense del lavoro (US Bureau of Labor Statistics) aveva osservato che i cittadini americani di 36 anni, da quando ne avevano 16, avevano già cambiato, in media, 9.6 posti di lavoro. E che l’idea di svolgere una professione per tutta la vita, e quella del posto fisso, stavano diventando praticamente delle illusioni.
Chi si occupa di orientamento dovrà diffondere il convincimento, specialmente presso i giovani, che il lavoro che il futuro riserverà loro sarà molto impegnativo anche da un punto di vista cognitivo, emotivo e relazionale. Che saranno chiamati anche a impegnarsi contemporaneamente e nel corso della stessa giornata, su più fronti, in parallelo come dicono i cognitivisti. Che dovranno spesso condividere più progetti e manifestare, di volta in volta, sensibilità, abilità e competenze diverse per risultare appropriati ai diversi ruoli che dovranno ricoprire (Bagnara, 2007).
Anche i posti di lavoro e gli orari cambieranno: si lavorerà di più per strada, in treno, a casa. Un orario stabile di lavoro sarà probabilmente riservato solamente agli esclusi dalla futura società dell’informazione e della conoscenza.
Ma a chi saranno riservati i nuovi lavori? E quante persone potranno dedicarsi a essi dal momento che richiederanno elevata formazione e competenze decisamente complesse e sofisticate come, ad esempio, quelle necessarie a lavorare nella ricerca, nell’alta istruzione, nella finanza, nel management, nell’informatica, nell’ingegneria, nell’architettura, nell’arte, nel design, nell’intrattenimento e nella comunicazione? (Savickas, Nota, Rossier, et al., 2009).

E a tutti gli altri cosa capiterà?

A questo proposito è preoccupante il fatto che la percentuale degli studenti universitari americani che ritengono che la situazione economica sia un obiettivo essenziale della vita è notevolmente cresciuta: era del 39% nel 1970; nel 1995 era ormai salita al 74%, diventando l’obiettivo principale della vita a discapito di tutti gli altri obiettivi e valori (Bartolini, 2010, p. 25).
L’Europa, anche se a una certa distanza, sembra seguire ancora una volta gli Stati Uniti d’America; e in Italia, come dicono alcune ricerche che abbiamo condotto con la collaborazione di David Blustein, il lavoro viene visto quasi esclusivamente in modo strumentale, come fonte di reddito.
Solo raramente, anche da noi, viene visto come occasione di espressione di sé, delle proprie attitudini e dei propri interessi, o come contributo che il singolo potrebbe fornire allo sviluppo sociale.
In tutto questo, anche la scuola ha le sue responsabilità. Ed è proprio per questo che l’orientamento dovrà considerare proprio la scuola, e non l’ufficio privato di un professionista, il suo luogo più naturale di lavoro. All’interno dei servizi educativi dovremo contrastare la tendenza a non presentare più lo studio esclusivamente in termini funzionali, come condizione per aumentare la possibilità di successo lavorativo e sociale.
La scuola, facendo così, invitando a parlare di orientamento, come avviene troppo spesso in Italia, imprenditori e professionisti di successo, tende a rinforzare le motivazioni di tipo estrinseco … proponendo, alla fine, un messaggio analogo a quello della pubblicità: ciò che conta sono il successo, i soldi, l’apparire, il mostrarsi …
Il fronteggiamento di tutte queste sfide potrebbe avere maggiori probabilità di successo se gli orientatori trovassero validi alleati… Nessuno ormai, da solo, può far fronte alle insidie dell’insoddisfazione lavorativa del precariato, della disoccupazione… gli insegnanti e gli orientatori sono troppo deboli per pensare di poter affrontare tutte queste sfide.
Abbiamo bisogno di alleati e di allearci con coloro che, come noi, sono disposti a sponsorizzare buone cause. Sto pensando, ad esempio:

  • a coloro che stanno parlando di lavoro decente per tutti e di ridurre quelli pericolosi e insicuri. Ogni anno dal 2008 l’Agenzia Internazionale del Lavoro (ILO, The International Labour Office) organizza la Giornata mondiale per il lavoro dignitoso (WDDW). Il 7 ottobre di ogni anno, in ogni parte del mondo, anche noi potremmo farci vedere, sentire e chiedere per tutti un lavoro decente, un lavoro pieno di significati (decent work, meaningful work o travail dècent, trabajo decente) a difesa dei diritti fondamentali del lavoro e della giusta remunerazione… spero ardentemente che da noi il prossimo 7 ottobre non passi nell’indifferenza di tutti come è accaduto quest’anno!
  • a coloro che parlano di sviluppo sostenibile; di una società decente, di economia decente, di teorie e pratiche decenti… che hanno a cuore la dignità delle persone, le relazioni umane, la reciprocità e la partecipazione sociale;
  • a tutti coloro che considerano prioritario agire in aiuto delle persone a rischio di esclusione dal mondo della formazione o a rischio di esclusione dal mondo del lavoro (i disoccupati, i sottoccupati e i precari, ad esempio), perché vengano garantite effettive possibilità di inclusione e partecipazione.

ricerca

Ai problemi strutturali del mondo del lavoro, in altre parole, non dovremmo più rispondere usando un linguaggio individualistico prettamente occidentale… proponendo costrutti quali la flessibilità, l’auto-imprenditorialità e la creatività individuale, … o proponendo ancora, come ha osservato de Botton (2009), frasi più o meno arroganti del tipo “Io sono l’autore della mia storia” (“I am the author of my own story”) o, semplicisticamente, che il nostro futuro dipende da noi.
A questo riguardo dovremmo tutti concordare con Ronald Sultana (2011) quando afferma che non c’è autodeterminazione individuale senza solidarietà sociale e che se ciò che viene chiesto all’individuo è di percorrere strade pericolose … gli si deve fornire almeno delle protezioni, delle corsie di emergenza, delle reti di salvataggio.
L’orientamento può far parte di questa rete di sicurezza, ma deve prima riuscire a meritarsi questo ruolo trasformandosi in pratica sociale di supporto alle persone, ma anche dei pubblici decisori affinché tengano anche conto dei valori che lo ispirano.
Se riusciremo a fare questo anche con i tempi che corrono avrà ancora senso parlare di orientamento a patto che si ribelli all’idea di diventare schiavo del mercato del lavoro e delle sue più o meno bizzarre fluttuazioni.
Se il futuro non è più quello di una volta anche l’orientamento deve cambiare … non può più limitarsi a valutare se le persone sono adatte a questo o quel contesto, se hanno i requisiti di accesso a questa scuola o a quel lavoro. In epoche di crisi come quelle che stiamo vivendo l’orientamento continuerà a sopravvivere, a mio avviso, solo a determinate condizioni.

  1. Se riuscirà a presentarsi come disciplina e professione di prevenzione primaria nei confronti delle tematiche dell’emarginazione e del rischio di esclusione dal mondo della formazione e del lavoro proponendo interventi efficaci e a basso costo (Rivera-Mosquera et al., 2007).
  2. Se proporrà letture e analisi, a livello di ricerca e di intervento, di tipo ambientalista e contestualista, attribuendo molta importanza agli ambienti di vita e di provenienza delle persone, ai loro valori e ai loro paradigmi culturali di riferimento (Hage et al., 2007; Reese, 2007; Reese, Vera e Caldwell, 2006).
  3. Se privilegerà, anche per questioni di costo, gli interventi di orientamento per grandi gruppi di destinatari e considererà che gli interventi psicoeducativi dovrebbero rappresentare la nostra priorità (Vera e Speight, 2003); anche Holland (1996) riteneva che “i metodi di gruppo e di tipo educativo sono i soli che ci possono aiutare a far fronte alle necessità di gruppi con medio e basso status socio-economico” (p. 3).

Se noi consideriamo le persone responsabili delle loro difficoltà, allora l’intervento individuale potrebbe avere un senso e acquistare caratteristiche molto simili a quelle di tipo clinico, curativo o riabilitativo (Sampson, 2009, p. 93).
Se ci interessa la prevenzione, invece, dovremo domandarci quanto siamo effettivamente degli ambientalisti e quanto, con il nostro lavoro, inavvertitamente, ci troviamo a supportare lo status quo (Arthur, 2005; Blustein, McWhirter e Perry, 2005; Hiebert, 2006). Questo non significa che non dobbiamo occuparci delle persone, dei singoli, ma che lo dobbiamo fare con un’ottica diversa evitando di ricercare dentro di lei/lui le ragioni delle loro difficoltà.
Forse avere una sorta di manifesto per la prevenzione in materia di orientamento potrebbe aiutarci in tutto ciò.
Ho provato ad adattare alla prevenzione in orientamento alcuni dei suggerimenti che Hage et al. (2007) hanno fornito a chi si occupa di psychological counseling. Ecco cosa è venuto fuori:

Anche l’orientamento non è più quello di una volta: dieci idee guida per un orientamento diverso

Lo scopo dell’orientamento è quello di favorire in tutte le persone lo svolgimento di lavori decenti, soddisfacenti, ricchi di significato e di prevenire “la scelta” e lo svolgimento di quelli indecenti e insicuri.
La prevenzione in materia di orientamento persegue l’equità, la giustizia sociale e la qualità della vita delle persone.
L’orientamento richiede competenze specifiche da condividere in contesti di multidisciplinarietà e collaborazioni comunitarie.
Chi si occupa di orientamento deve essere esortato a scegliere e a implementare programmi a basso costo, basati su solide teorie e sostenuti dall’evidenza empirica.
Chi si occupa di orientamento è esortato a ricorrere a pratiche di prevenzione culturalmente rilevanti e adatte ai contesti in cui opera.
Chi si occupa di orientamento si propone la riduzione dei rischi e la promozione dei punti di forza e del benessere delle persone nel corso della loro vita.
Chi si occupa di orientamento è chiamato al rispetto di un preciso codice etico.
Chi si occupa di orientamento si propone di trasferire le proprie competenze a quanti, nella comunità, potrebbero favorire in modo significativo l’incremento della prevenzione.
Chi si occupa di orientamento è invitato a collaborare con quanti hanno a cuore la promozione della salute e del benessere della popolazione.
Chi si occupa di orientamento non lo confonde con le operazioni di marketing e non consente che venga strumentalizzato al fine di influenzare le scelte delle persone.

Riferimenti bibliografici essenziali

Arrindell, W., Nota, L., Sanavio, E., Sica, C. e Soresi, S. (2004). SIB – Valutazione del comportamento interpersonale e assertivo. Trento: Erickson.
Bagnara, S. (2010). Lavoro e sistemi formativi nella società della conoscenza. Torino: Fondazione Giovanni Agnelli.
Bandura, A. (2001). The changing face of psychology at the dawning of a globalization era. Canadian Psychology, 42, 12-24.
Bartolini, S. (2010). Manifesto per la felicità: Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere. Milano: Baldini.
Beck, U. (2000). Risk society revised: Theory, politics and research programs. In B. Adam, U. Beck e J. van Loon (a cura di). The risk society and beyond: Critical issues for social theory. London: Sage.
Blustein, D.L. e Flum, H. (1999). A self-determination perspective of exploration and interests in career development. In M.L. Savickas e A. Spokane (a cura di), Vocational interest: Their meaning, measurement, and use in counseling (pp. 345-368). Palo Alto, CA: Davies-Black Publishing.
Deci, E.L. e Ryan, R.M. (1985). The general causality orientations scale: Self-determination in personality. Journal of Research in Personality, 19, 109-134.
Ferrari, L., Nota, L. e Soresi, S. (2010). Time perspective and indecision in young and older adolescents. British Journal of Guidance & Counselling, 38, 61-82.
Holland, J.L. (1992). Making vocational choices: A theory of vocational personalities and work environments (2nd ed.). Odessa, FL: Psychological Assessment Resources.
Lent, R.W. (2001). Vocational psychology and career counseling: Inventing the future. Journal of Vocational Behavior, 59, 213 – 225.
Mann, L. e Friedman, I. (2002). Come prendono le decisioni gli adolescenti. In L. Nota, L. Mann, S. Soresi e I.A. Friedman, Scelte e decisioni scolastico-professionali. Processi e procedure di analisi ed intervento. Firenze: ITER – Institute for Training Education and Research.
Mirandola, M. e Soresi, S. (1991). Contributo all’adattamento italiano del Problem Solving Inventory di Heppner e Petersen. Bollettino di Psicologia Applicata, 198, 9-18.
Nota, L. e Soresi, S. (1999). L’indecisione scolastico-professionale nella scuola media. Supplemento a Psicologia e Scuola, 95, 191-200.
Nota, L. e Soresi, S. (2003). An assertiveness training program for indecisive students attending an Italian university. The Career Development Quarterly, 51, 322-334.
Nota, L., Ferrari, L. e Soresi, S. (2005). L’autodeterminazione in adolescenti che si accingono a scegliere un percorso universitario. Risorsa Uomo, 11, 63-78.
Nota, L. e Soresi, S. (2000). Autoefficacia nelle scelte: La visione sociocognitiva dell’orientamento. Firenze: ITER – Institute for Training Education and Research.
Nota, L. e Soresi, S. (2004). Improving the problem solving and decision-making skills of a high indecision group of young adolescents: A test of the ‘Difficult: No problem!’ training. International Journal for Educational and Vocational Guidance, 4, 3-21.
Nota, L. e Soresi, S. (2010). Sfide e nuovi orizzonti per l’orientamento. Vol. I – Metodologie e buone pratiche. Firenze: Giunti O.S. Organizzazioni Speciali.
Polacek, K. (2003). Self-Directed Search – Forma R. Firenze: Giunti O.S. Organizzazioni Speciali.
Soresi, S., Nota, L. e Lent, R. (2004). Relation of type and amount of training to career counseling self-efficacy in Italy. The Career Development Quarterly, 52, 194-201.
Soresi, S. e Nota, L. (1998). Prevenzione, orientamento e qualità della vita. Quaderni di Orientamento, 12, 2-15.
Soresi, S. e Nota, L. (2010). Sfide e nuovi orizzonti per l’orientamento. Vol. I – Diversità, sviluppo professionale, lavoro e servizi territoriali. Firenze: Giunti O.S. Organizzazioni Speciali.
Soresi, S., Nota, L. e Ferrari, L. (2005). Counseling for adolescents and children at risk in Italy. Journal of Mental Health Counseling, 27, 249-265.
Sultana, R. (2011). Lifelong guidance, citizen rights and the state: Reclaiming the social contract. Brithish Journal of Guidance & Counseling, 39, 2, 179-186.
Zanetti, M.A. e Ferretti, M.S. (2004). Difficoltà decisionali in studenti indecisi: Strategie e modalità di scelta. Giornale Italiano di Psicologia dell’Orientamento, 5, 3-13.

I link sono stati apposti dalla Redazione; i siti cui essi rimandano erano in atto al momento della pubblicazione dell’articolo.