Un nuovo paradigma per superare la crisi economica del terzo millennio e guardare con ottimismo e speranza al futuro

di Sabrina Tripodi

ricerca

1. Introduzione: nuovi possibili scenari all’orizzonte

Jeremy Rifkin è un economista di statura mondiale che insegna alla Wharton School of Finance and Commerce della Pennsylvania, ed è Presidente della Foundation on Economics Trends of Washington. Negli ultimi dieci anni, Rifkin ha percorso in lungo e in largo i cinque continenti del globo per offrire la sua consulenza ai Capi di stato e di governo (tra cui il Presidente della Commissione Europea Barroso) sensibili ai problemi del terzo millennio (inquinamento, surriscaldamento globale, collasso dell’economia basata sul petrolio, ecc.), e pronti a intraprendere una via alternativa per rilanciare l’economia su basi ecosostenibili, accelerando l’avvento di quella che lui stesso ha definito: la “Terza Rivoluzione Industriale”. Di cosa si tratta?
Nel 1995 Jeremy Rifkin ha scritto un testo fondamentale, La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era del post mercato, in cui ha analizzato i cambiamenti in atto nel contesto economico mondiale e ha profetizzato la fine del lavoro di massa dell’economia di mercato, cioè la fine del lavoro quale espressione della “Seconda Rivoluzione Industriale”, ormai in declino. In quel saggio, l’Autore segnalava come l’aumento generalizzato della produttività industriale dovuto all’uso di macchine sempre più veloci e intelligenti, non si stava accompagnando a una pari crescita dell’occupazione, ma al contrario faceva registrare una netta perdita di posti di lavoro, soprattutto nel comparto manifatturiero. Secondo Rifkin, questo è accaduto perché la proprietà e il management di quasi tutte le organizzazioni produttive del mercato internazionale hanno scelto di non condividere con la forza lavoro i benefici dovuti all’incremento della produttività, estendendo gli utili dei maggiori profitti realizzati grazie all’efficienza delle nuove tecnologie, ad esempio accorciando la settimana lavorativa per impiegare un numero più consistente di forza lavoro. Al contrario, l’ideologia dominante ha contribuito a far accettare il messaggio che tagliare sulle risorse umane era, e sarebbe stato, l’unico criterio valido per garantire ampi margini di sopravvivenza ad aziende e corporation (Rifkin 1995).
Nel 2011 Rifkin scrive un altro testo fondamentale, La Terza Rivoluzione Industriale, in cui profetizza che la transizione verso un nuovo modello di produzione di energie pulite, assieme alla costruzione di nuove infrastrutture che ne permettano la gestione, l’uso, la conservazione e la distribuzione, consentirà la creazione di centinaia di milioni di nuovi posti di lavoro. Ma questo accadrà se (e il condizionale è d’obbligo) i Paesi e le società civili di tutto il mondo sapranno farsi carico di un cambiamento coraggioso verso nuovi paradigmi di produzione e verso un uso intelligente, reticolare e condiviso delle risorse della Terra, a cominciare dall’uso di energie pulite e rinnovabili attraverso tecnologie all’avanguardia.
Per Rifkin (2011), le crisi del mercato finanziario americano dal 2007 in poi e le conseguenti crisi dei mercati finanziari mondiali hanno rappresentato l’inevitabile conseguenza del declino della seconda rivoluzione industriale, il definitivo infrangersi di un modello irrealistico e insostenibile di progresso fatto a spese delle ricchezze terrestri comuni, e la crisi del consumismo “usa e getta” che, di quei modelli produttivi, era stato figlio ed emblema. Nel suo ultimo libro, l’Autore riesce a dimostrare efficacemente la stretta correlazione tra tutte le crisi che hanno attraversato l’economia globale degli ultimi anni e il lento declino della seconda rivoluzione industriale.
Negli ultimi anni, Rifkin ha delineato con forza, precisione e cauto ottimismo i confini di un nuovo paradigma economico-energetico-tecnologico che potrebbe guidare le società del terzo millennio entro scenari pieni di speranza e di fiducia e verso un nuovo possibile futuro del pianeta Terra (Rifkin 2002; Rifkin 2011). Del resto non c’è altra scelta: o guardiamo con speranza e ottimismo alle possibilità di cambiamento nella produzione di beni e servizi, implementando contestualmente un uso intelligente delle risorse del pianeta, o sarà la catastrofe per tutti, perché il delicato ecosistema globale in cui viviamo non reggerà oltre alla pressione dello sfruttamento cieco e insano delle risorse della Terra (Rifkin, 2011).
Nel lavoro che segue, tenterò di delineare come il nuovo paradigma politico-economico-energetico, tratteggiato da Rifkin, possa rappresentare il contesto innovativo ideale in cui poter sviluppare al meglio gli interventi del Professionista dell’orientamento e del Consulente professionale a beneficio di individui e comunità sociali.

2. Alcuni segnali dei cambiamenti in atto nello scenario politico-economico globale

Da oltre un trentennio, i fenomeni ambientali con cui si confrontano le imprese e i lavoratori si manifestano in modo assai discontinuo, mediante bruschi e rilevanti cambiamenti che disegnano scenari mondiali turbolenti e imprevedibili (Rocco 2011; Sicca 1998). Raggruppo questi cambiamenti in tre categorie, sottintendendo la stretta interrelazione reciproca: cambiamenti di ordine politico economico, cambiamenti di tipo scientifico-tecnologico e cambiamenti di ordine socio-culturale.

2.1. Cambiamenti di ordine politico-economico: la globalizzazione dell’economia
Secondo l’economista Stefano Zamagni (1995), la specificità dell’economia attuale risiede “nell’intensità con cui i legami di natura economico-finanziaria fra aree diverse del globo prendono corpo, nella loro natura qualitativamente diversa da quella del passato” (Zamagni 1995, p. 19), e nella partecipazione di un sempre maggior numero di Paesi alle transazioni economico-commerciali dei mercati internazionali.
Uno dei segnali caratteristici dell’era della globalizzazione è la guerra ideologica della competizione – tramutatasi da “mezzo”, per un corretto funzionamento dell’economia di mercato, a “fine”, cioè obiettivo primario di imprese e governi (Petrella 1995, p. 17) – che ha tra gli effetti più sfavorevoli per il mercato la concentrazione di capitali e la multi-nazionalizzazione delle imprese.
Su questo fronte le cifre parlano chiaro: 60000 società transnazionali possiedono circa mezzo milione di filiali in tutto il mondo ma la cifra più inquietante è che le prime 200 società transnazionali gestiscono un quarto dell’attività economica internazionale (prodotto mondiale lordo). (World Investement Report 2000, Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, cit. in George 2001, p. 13 e segg.).
Inoltre, nell’attuale scenario di competizione globale, si assiste sempre più spesso a un evento preoccupante: fusioni tra grandi imprese già affermate e redditizie, tradizionalmente presenti su mercati anche geograficamente molto distanti o settori distinti, le quali, con tale strategia, acquisiscono un potere economico e commerciale quasi impossibile da sfidare per i concorrenti minori. Si tratta di “intese e concentrazioni tra operatori di reti e operatori di servizi di dimensioni planetarie, del tutto impensabili anche nel passato più recente” (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, 2000, p. 4). Secondo Zamagni, il risultato del processo di iper-concorrenza globale è la “riduzione dell’efficacia operativa delle varie legislazioni nazionali antitrust: per quanto efficiente possa essere un Paese nell’implementazione di una legge antitrust e nella sua capacità di farla rispettare, il risultato sarà sempre deludente. L’iper-competizione riuscirà comunque ad avere una velocità maggiore di quella delle autorità preposte al controllo del potere di monopolio o di oligopolio” (Zamagni 1995, p. 30).
La concentrazione di potere in poche unità economiche consente a queste ultime di esercitare un’influenza notevole sulle società civili e il loro futuro, di sfruttare risorse naturali e ricchezze locali a vantaggio di pochi, di non rendere conto ad alcun Governo, Istituzione e società civile del proprio operato (Petrella 1995, p. 20) e infine di acquisire posizioni di vantaggio competitivo sui mercati internazionali cedendo alla tentazione più immediata, quella dell’abbattimento dei costi del lavoro e della sicurezza e tutela del lavoratore (cosiddetto dumping sociale) (Zamagni 1995, p. 29).

2.2. Cambiamenti di tipo scientifico-tecnologico
L’integrazione tra scienza, tecnica e sviluppo energetico ha fatto registrare, negli ultimi due secoli, mutamenti notevoli nelle condizioni di vita degli esseri umani. Possiamo definire alcune tappe importanti che hanno rappresentato punti di svolta nel progresso scientifico-tecnologico e nell’organizzazione delle attività produttive: dalla seconda metà del Settecento prende avvio la Prima Rivoluzione Industriale, con l’invenzione della macchina a vapore e la costruzione di macchine sempre più precise e specializzate nella lavorazione delle materie prime e, nella seconda metà dell’Ottocento, i progressi continuano con la comparsa dei primi casi di controllo automatico delle macchine, realizzati con l’ausilio di motori costituiti da mulini ad acqua e macchine a vapore (ad esempio frese meccaniche). Questi progressi hanno determinato un radicale mutamento nelle strutture economiche, sociali e politiche del mondo civile con l’evoluzione, nel settore produttivo, dalle tradizionali manifatture alla produzione meccanizzata e accentrata nella fabbrica e, nelle società, con la nascita della borghesia industriale e della moderna classe operaia.
Agli inizi del Novecento si colloca quella che Rifkin (2011) definirebbe la Seconda Rivoluzione Industriale, con il passaggio dall’energia a vapore all’energia elettrica, sviluppata da fonti di combustibile fossile. Per quanto riguarda l’organizzazione dell’industria, il traguardo è notevole: l’energia elettrica, a differenza di quella a vapore o a carbone, raggiunge simultaneamente tutti i punti della fabbrica, le macchine vengono integrate in sistema per eseguire compiti complessi mediante l’assemblamento in sequenza di operazioni semplici e parcellizzate, e la velocità di esecuzione delle procedure di lavorazione aumenta drasticamente di cinque volte con immediate ricadute sulla produttività aziendale. È grazie a questo “presupposto tecnologico” che nasce la fabbrica fordista e prende corpo il paradigma taylorista dell’organizzazione scientifica del lavoro (Rullani 1998, p. 45). Questo modello di organizzazione, riadattato a tempi differenti e a diversi contesti nazionali, persisterà fino ai giorni nostri, alimentandosi del mito della fabbrica completamente automatizzata in cui non è più necessario l’intervento umano. Mito che, secondo l’autorevole osservatore economico Mariotti, è destinato a fallire per l’impossibilità di concretizzare “l’illusione iper-tecnologica di progettare modelli Cim [Computer Integrated Manufacturing] in grado di identificare a priori tutti i fabbisogni e gli scambi informativi da automatizzare in relazione ai presenti e ai futuri stati della natura” (Mariotti 1995, p. 30).
Le tecnologie di automazione industriale a controllo numerico furono introdotte nei processi produttivi negli anni ’50 e ’60 e registrarono un forte incremento di utilizzo aziendale negli anni ’70. Per automazione oggi s’intende una grande varietà di tecnologie: macchine utensili a controllo numerico assistite da computer (CNC machines), robot, sistemi automatici di confezionamento (imbottigliamento, inscatolamento, packaging, ecc.), tecnologie Cad/Cam (Computer Aided Design– automazione delle operazioni di progetto – e Computer Aided Manifacturing – la fabbricazione assistita da computer), la tecnologia Cim (Computer Integrated Manufacturing).
L’impiego integrato di tali metodologie consente di ridurre drasticamente sia i tempi della progettazione e della produzione (disegnatori, operai per il controllo delle macchine, ecc.) sia i costi, mediante una gestione dei flussi di materiali e di risorse che riduca i relativi tempi di permanenza nel sistema produttivo (costi di immagazzinamento e movimentazione materiali).
Se da un lato le tecnologie di automazione hanno consentito l’ottimizzazione dei processi produttivi delle economie di scala (i cui obiettivi possono essere sintetizzati in tre punti essenziali: standardizzazione dei processi e dei prodotti, abbattimento dei costi di produzione e massimizzazione dei profitti) dall’altro lato la rigidità complessiva del sistema, così ottenuta, ha impedito l’evoluzione delle imprese e il loro adeguamento ai rapidi mutamenti dei mercati. Anche le cosiddette tecnologie flessibili di produzione e progettazione (Cad, Cam, Cim, ecc.) presuppongono, infatti, da una parte un ambiente esterno poco variabile e, dall’altra, attori estremamente razionali in grado di predire e assumere nel sistema ogni possibile futura variabilità, con margini d’errore molto bassi e costi di switching (deviazione dal pre-programmato) altrettanto bassi (Mariotti 1995, p. 34). Questo obiettivo è pressoché irrealizzabile, date le caratteristiche delle persone che dovrebbero attuarlo e dell’ambiente turbolento con cui devono relazionarsi le imprese.

2.3. Cambiamenti di ordine socio-culturale
Le società stanno progressivamente diventando più colte e istruite, più complesse, con elevati gradi di differenziazione interna. Sono società in cui mutano e si frammentano i bisogni, società in cui si diversificano, sofisticandosi e personalizzandosi, le stesse richieste rivolte al mercato. I grandi cambiamenti degli ultimi vent’anni hanno mutato il volto della società contemporanea e hanno fatto parlare di società e cultura post-moderna e post-industriale (o post-fordista) e di società dell’informazione.
I sociologi Giaccardi e Magatti (2003) scrivono che “la produzione e il consumo di massa, la disponibilità di servizi sempre più avanzati, la diffusione e l’articolazione dei sistemi di comunicazione, l’enorme investimento nell’istruzione e nella formazione di base e professionale, l’estensione dei diritti sociali sono tutti fattori che hanno concorso a mettere a disposizione di milioni di soggetti una quantità straordinaria di risorse a potenziamento dell’azione individuale, accrescendo al tempo stesso il contenuto simbolico della vita sociale”. Essi aggiungono che gli individui hanno a disposizione molte più possibilità di autorealizzazione: i nuovi processi di produzione e circolazione delle informazioni sviluppano, come mai prima d’ora, le capacità cognitive e comunicative dell’uomo, e i diritti civili acquisiti in decenni di lotte politiche allargano la sfera della libertà personale e l’esercizio delle decisioni volontarie (Giaccardi e Magatti 2003, p. 32).
L’economista Jeremy Rifkin (2000), analizzando la condizione post-moderna, parla di un nuovo tipo di individuo molto diverso dall’uomo dell’era moderna: l’uomo di oggi è un essere proteiforme, cioè in grado di assumere diversi aspetti e atteggiamenti, relazionale più che autonomo e indipendente, flessibile e mimetico, capace di adeguarsi alle veloci trasformazioni della società e alla mutevolezza dei molteplici contesti di appartenenza, soprattutto virtuali (ivi, p. 271). Nel descrivere la portata dei cambiamenti di cui parla, Rifkin aggiunge che: “la comunicazione elettronica è organizzata ciberneticamente, non linearmente: i concetti di sequenzialità e causalità sono sostituiti da un campo totale di attività continue e integrate. In un mondo di comunicazioni elettroniche, soggetti e oggetti cedono il posto a nodi e reti; strutture e funzioni vengono sostituite da processi. La modalità organizzativa del computer – soprattutto dell’elaborazione parallela – rispetta il funzionamento del sistema culturale, in cui ogni parte è un nodo in una rete dinamica di relazioni che si riaggiusta e si rinnova di continuo, a ogni livello della propria esistenza” (ivi, p. 274). Secondo Rifkin, il computer promuove lo sviluppo di un nuovo tipo di coscienza, la coscienza relazionale, così come la stampa aveva favorito la diffusione del concetto di “essere autonomo” (ivi, p. 277).

2.4. Transizione dal vecchio al nuovo e sfide del nuovo millennio
La scienza e la tecnologia a servizio dell’economia e i mutamenti sociali e culturali hanno inciso naturalmente sulle forme organizzative della produzione di beni e servizi. L’economista Enzo Rullani (1998) individua tre grandi modelli di sviluppo economico e organizzativo che utilizza come “paradigmi economici” cioè schemi che regolano, con le dovute varianti ambientali, le relazioni tra gli attori sociali nei vari contesti in cui tali modelli si sono impiantati1. I primi due paradigmi hanno fatto la storia dell’organizzazione economica dell’Ottocento e del Novecento e sono il capitalismo liberale (prefordista) e il capitalismo sistemico (fordista); il terzo paradigma, il capitalismo reticolare (postfordista), sta emergendo lentamente dalle contraddizioni del fordismo, ma sinora è rimasto una semplice possibilità. Ciò che sta notevolmente contribuendo a far emergere un nuovo “paradigma economico” è una “nuova base tecnologica” che incorpora l’intelligenza artificiale delle macchine e la comunicazione a rete: “il punto di avvio del nuovo paradigma è legato ad una rivoluzione tecnologica: quella che accoppia informatica (computer) e telecomunicazioni (Internet)” (Rullani 1998, p. 51).
Comunque è utile e interessante rilevare quanto scrive Rullani a proposito della possibile transizione:
“La storia non produrrà automaticamente le innovazioni economiche, istituzionali, culturali necessarie per sviluppare un nuovo paradigma. Se si attende che il processo di sostituzione spontanea faccia il suo corso, si rischia di attendere i tempi lunghi o lunghissimi dell’evoluzione secolare […]. Il nuovo paradigma può esistere solo nella misura in cui la sua possibilità viene assunta da qualcuno come oggetto della propria azione, per prefigurare, indirizzare, coordinare il corso attuale degli eventi, forzando i tempi dell’uscita dal fordismo” (Rullani 1998, p. 5, corsivo mio).
La cultura della rete ha avviato, dagli anni ’90 del ventesimo secolo, un processo rivoluzionario che potrebbe portare a una profonda trasformazione sociale, politica ed economica della civiltà umana, al punto da rappresentare un forte rischio per tutti quei soggetti economici e politici (imprese multinazionali, oligopoli high tech, amministrazioni conservatrici, agenzie di governo mondiale) che hanno costruito la propria forza e potere sui principi del neo-liberismo economico e sociale, fondato sull’assenza di regole di mercato e sulla legge del più forte. Tali soggetti, secondo il giornalista Carlo Formenti, si sono già messi in moto per realizzare un processo contro-rivoluzionario che limita le libertà democratiche e sopprime gli spazi di creatività e innovazione sociale che la rivoluzione digitale ha offerto a piccole e medie imprese, consumatori, movimenti, comunità e individui (Formenti 2002, p. VI).
Lo stesso Rullani (1998) mette in guardia da due possibili risposte di corto respiro alla crisi determinata dal declino del paradigma fordista e dall’imprevedibilità dell’attuale scenario politico-economico: “un’evoluzione neofordista di tipo difensivo e conservatrice; o una scelta fondamentalista di adesione senza condizioni alla rivoluzione tecnologica e sociale innescata dal postfordismo” (Rullani 1998, p. 25). In entrambi i casi si assisterebbe all’affermazione di forze autoritarie che minerebbero i traguardi raggiunti dal processo di democratizzazione e diffusione del potere economico, politico e culturale e che, nell’arena competitiva globale, farebbero prevalere logiche egoistiche e illiberali di predominio del più forte sul più debole. La transizione possibile ed auspicabile è invece definita da Rullani “post-fordismo progettabile”, ed è regolata e condivisa il più possibile da tutti gli attori sociali. Tale esito è il frutto della costruzione di regole socialmente elaborate e condivise e di reti di cittadinanza e di solidarietà sociale (ivi, p. 29, corsivo mio).

1 Nell’accezione di Rullani “un paradigma economico è una sorta di intelligenza collettiva (Levy, 1994) che connette, interpreta e organizza i processi cognitivi degli attori sociali ed economici, mettendoli a sistema e finalizzandoli al valore economico, […] un paradigma economico agisce sugli attori sociali non direttamente, ma attraverso la mediazione del sistema cognitivo che essi utilizzano per comprendere il mondo e scegliere i propri corsi di azione. Il paradigma fornisce ad essi un frame condiviso e un materiale di base coerente (conoscenze, relazioni) su cui intessere le storie individuali e collettive. Nell’intreccio di queste storie, il paradigma ha un posto perché, all’interno di ciascuna di esse, presidia il bisogno di coerenza e di condivisione che è proprio del conoscere. Questa nozione di paradigma lega la produttività ad un insieme coerente e integrato di ingredienti tecnici, relazionali, cognitivi, comportamentali e istituzionali” (Rullani 1998, p. 31, corsivi nel testo).

Un nuovo paradigma
Rifkin propone una definizione più ampia di paradigma economico che integra, alle componenti individuate da Rullani, il ruolo fondamentale svolto dall’energia. La seconda rivoluzione industriale è stata caratterizzata dal convergere dell’elettricità centralizzata alimentata da combustibili fossili e petrolio, dall’espansione dell’edilizia suburbana e dalla capillare diffusione dell’automobile come mezzo di trasporto (Rifkin, 2011, p. 27). La terza rivoluzione industriale è invece caratterizzata dal convergere dello sviluppo esponenziale delle tecnologie ICT, dall’utilizzo di energie pulite e rinnovabili che si abbinano a nuove tecnologie d’uso e conservazione, e da una distribuzione accessibile, orizzontale, condivisa e collaborativa del potere, resa possibile sia dallo sviluppo dell’ICT sia dal diffondersi di una nuova mentalità umana, che Rifkin definisce “biosferica”, “relazionale”, “empatica” e “collaborativa” (Rifkin 2011, p. 14 e p. 248).
In tale scenario, un ruolo proattivo deve essere giocato da:

  • attori politici ed economici in grado di traghettare con competenza ed efficacia le società civili e le organizzazioni produttive verso un paradigma politico-economico-energetico sostenibile;
  • enti di formazione e ricerca, che devono saper progettare contesti sociali e organizzativi innovativi e formare le nuove generazioni ad assumere un ruolo costruttivo, propositivo e innovativo negli scenari futuri;
  • dalla società civile nel suo complesso, cioè nelle sue forme organizzate (associazioni, imprese cooperative, ecc.), e nelle sue componenti individuali.

Tutti questi soggetti devono acquisire una centralità strategica nell’economia globale e lo potranno fare se sapranno affrontare in modo competente ed efficace le sfide decisive che si presenteranno all’orizzonte.

3. Il ruolo del Vocational Guidance e del Career Design nella costruzione di scenari pieni di ottimismo e speranza

Personalmente trovo curioso che Jeremy Rifkin (2011), nell’individuare le professioni scientifiche ed economiche che devono collaborare attivamente per avviare il cambiamento che traghetterà le società dal vecchio paradigma di riferimento al nuovo, in funzione della costruzione di un futuro migliore per tutti, non menzioni le professioni consulenziali e le professioni d’aiuto. Scrive Rifkin a questo proposito:
“È molto probabile che le intuizioni e i contenuti della teoria economica ortodossa, tuttora validi, saranno ripensati e rielaborati in una prospettiva termodinamica. Usare le leggi dell’energia come linguaggio comune permetterà agli economisti di entrare in profonda relazione con gli ingegneri, i chimici, gli ecologi, i biologi, gli architetti e gli urbanisti e gli esponenti di tutte le altre discipline che si fondano sulle leggi dell’energia. Poiché questi campi sono quelli che creano attività economica, sviluppare nel tempo una seria discussione interdisciplinare può portarci a una nuova sintesi tra l’economia teorica e pratica, e far emergere un nuovo sistema economico esplicativo che accompagni il paradigma della Terza Rivoluzione Industriale” (Rifkin 2011, p. 241, corsivi miei).
A parer mio, nello scenario complesso sopra delineato, la consulenza professionale e l’orientamento alle scelte formative e lavorative possono contribuire a ridisegnare, in modo originale, efficace e di qualità, strategie e percorsi individuali e collettivi che rispondano agli emergenti problemi politici, economici e sociali delle complesse società post-contemporanee.
Secondo le più recenti concezioni, la Psicologia dell’orientamento incoraggia le persone a iniziare un “viaggio” esplorativo finalizzato alla costruzione attiva di un’identità professionale, che le sostiene nella creazione di “quella cerchia di relazioni all’interno delle quali aumenta il senso di contributo offerto alla comunità di appartenenza” (Solberg, Soresi, Nota, Howard e Ferrari, 2007), passaggio – questo – ineludibile e fondamentale nella costruzione di quel “capitale sociale” che deve contribuire, secondo il visionario Rifkin, a condurre le società civili a partecipare “a domini collettivi aperti” e ad accedere “alle reti globali” (Rifkin 2011, p. 271).
Proprio nel momento in cui la crisi economica e la recessione rallentano le attività economiche e lo scambio sociale, i consulenti possono rappresentare dei mediatori molto importanti che contribuiscono – assieme alle forze più innovative della società – a creare e diffondere nuove visioni strategiche e a condividere nuovi orizzonti di senso. Essi possono contribuire a migliorare i contesti in cui vivono e operano, lavorando sinergicamente con referenti politici ed economici, cittadini, associazioni, sindacati, datori di lavoro, lavoratori, inoccupati e disoccupati, in modo pro-attivo e partecipato. I consulenti dovrebbero partecipare al pubblico dibattito sulla difficile situazione economico-sociale in qualità di referenti cruciali, proprio perché lavorano a stretto contatto con le persone chiamate a realizzare se non addirittura a incarnare il cambiamento. In quest’attività, i professionisti dell’orientamento e della consulenza professionale potrebbero interagire anche con le imprese, mantenendo però la loro importante indipendenza da queste, e tentando di influenzare la loro prospettiva invitando i rappresentanti chiave (amministratori delegati, project manager e responsabili delle risorse umane) a prestare attenzione alla crescita personale, professionale e sociale di dipendenti e collaboratori (Laudadio, 2012). Tali consulenti potrebbero quindi orientare individui, gruppi e società a costruire contesti organizzativi più vicini e rispondenti ai bisogni umani, nel rispetto dei delicatissimi equilibri dell’intero ecosistema mondiale.

Orientamento alle scelte scolastiche e professionali nei luoghi strategici
Verso la fine del suo libro, Rifkin parla esplicitamente di come i sistemi dell’istruzione e della formazione debbano per primi cambiare strategia di intervento e guidare il cambiamento. Rifkin scrive che i programmi scolastici di tutte le scuole americane ed europee sono vecchi, obsoleti e avulsi dall’attuale crisi economica mondiale e dalla crisi ambientale. In tutto il mondo, i sistemi scolastici sono ormai “un relitto dell’epoca passata” (Rifkin 2011, p. 242).
Il Sistema della formazione necessita quindi esso stesso di un vigoroso stimolo al mutamento. In questo, i professionisti dell’orientamento e della consulenza possono partecipare apportando un contributo originale e necessario. Queste figure operano tra due settori strategici: il Sistema dell’Istruzione e il Sistema Lavoro, contribuendo attivamente a unire il divario tra i due. In questa situazione, tutte le componenti sociali, e soprattutto gli individui e i gruppi svantaggiati, potrebbero beneficiare dei servizi dell’orientamento e della consulenza professionale, avvantaggiandosene sul turbolento e imminente futuro.
Inoltre, come scrivono Nota e Soresi (2010a), l’intervento del professionista dell’orientamento deve privilegiare l’ottica preventiva al fine di allargare quanto più possibile il numero di coloro che parteciperanno da protagonisti alla progettazione e alla costruzione degli scenari futuri.
I giovani che fuoriescono dai percorsi scolastici e formativi rischiano infatti di restare ai margini di una società complessa e sfaccettata come quella attuale, e ai margini di una cultura che rischiano di non comprendere e nei confronti della quale non possiedono efficaci strumenti di mediazione. Chi esce dai percorsi di formazione risulterà meno preparato a rispondere efficacemente alle complesse richieste del mercato del lavoro, anche quando si tratta di posizioni lavorative relativamente semplici; avrà meno probabilità di trovare e svolgere un lavoro soddisfacente; e minori probabilità di permanere entro un mercato competitivo e in rapida trasformazione come quello attuale (Nota e Soresi, 2010a).
In questi difficili anni che succedono alle crisi economiche mondiali, cui si è accennato sopra, il tasso di disoccupazione giovanile sta toccando punte drammatiche nella maggior parte dei Paesi europei, e il numero dei cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), cioè coloro che non si trovano entro i processi educativi scolastico-universitari, non hanno un lavoro e non compaiono entro altri processi di formazione, sta aumentando in modo preoccupante in tutta Europa (Rocco 2011).
Ogni anno circa 120 mila studenti europei, provenienti da quel 14,4% di studenti che abbandonano gli studi superiori, vanno a ampliare l’esercito dei Neet (De Mauro 2011).
Secondo i dati Istat, solo in Italia nel 2009, i Neet della fascia d’età 15-29 anni erano circa 2 milioni (il 21,2% della popolazione giovanile, e in particolare: il 18,2% di giovani maschi e il 24,4% di giovani femmine) (ISTAT 2011).
Questi dati la dicono lunga sull’assenza di prospettive di sviluppo personale e sociale che rappresentano degli importanti fattori di protezione rispetto a rischiosi percorsi di devianza e marginalità sociale che, nell’attuale difficile contesto sociale, percepito come privo di opportunità, possono elicitare esiti drammatici e allo stesso tempo quasi irreversibili.

4. Conclusioni

Ho chiuso i primi tre paragrafi parlando del ruolo che potrebbero assumere nuovi attori politici ed economici, scuole e università, enti di ricerca e società civile nel nuovo scenario che si sta profilando all’orizzonte. I mutamenti di carattere politico-economico, le innovazioni scientifiche e tecnologiche e i cambiamenti sociali e culturali in atto in questi anni hanno infatti messo in discussione il paradigma fordista di produzione e organizzazione aziendale, aprendo il varco a nuove possibilità produttivo-organizzative che vedono nella valorizzazione delle persone all’interno dei processi di educazione, formazione e produzione, nella gestione responsabile e condivisa di nuove forme di energia pulita, e nella realizzazione di una coscienza collettiva relazionale, empatica e biosferica (cioè in armonia con i ritmi naturali della Terra), i tre possibili fattori di sviluppo di un nuovo paradigma politico-economico-energetico definito “Terza Rivoluzione Industriale” (Rifkin 2011).
I tre fattori di sviluppo del nuovo paradigma possono e devono essere guidati nel loro percorso e nella loro evoluzione dal sapiente, efficace e integrato intervento di tutte le professioni scientifiche, consulenziali ed economiche che possono avere voce in capitolo in questo nuovo scenario e, a parer mio, soprattutto dai professionisti dell’orientamento e dai consulenti professionali, mediatori strategici tra individui, gruppi e organizzazioni.
Questi professionisti già lavorano con costrutti e variabili ritenute cruciali e che rappresentano le qualità distintive di vantaggio competitivo nel nuovo millennio (adattabilità professionale, potenziamento delle competenze cognitive e operative complesse, centralità dei processi formativi, valorizzazione e sviluppo del potenziale umano, integrazione multiculturale, interrelazione in rete e valorizzazione del capitale sociale, attenzione e partecipazione attiva alla definizione delle regole del gioco), considerate essenziali nel nuovo contesto socio-economico globale (Rifkin 2011; McMahon 2010; Ferrari 2010).
D’altro canto tutte queste qualità non sono dimensioni scontate che si autoproducono e automantengono nei contesti sociali e produttivi, ma sono bensì dimensioni “costruite” che presuppongono da una parte una competenza a convivere nei contesti e dall’altra una competenza a fondare le relazioni sociali e organizzative sulla possibilità dello “scambio produttivo” reciproco (Nota e Soresi, 2010; Soresi e Nota, 2010; Carli e Paniccia, 2003).
In sintesi, sarebbe interessante approfondire entro una ricerca ad hoc i temi qui abbozzati perché appaiono cruciali per l’avvento di un nuovo modello di società, ancora tutto da inventare e co-costruire.