Alla base dell’alternanza. La figura dei referenti all’alternanza…

Alla base dell’alternanzaLa figura dei referenti all’alternanza è prioritaria per andare verso un’alternanza di qualità. Tutto è però lasciato al caso o, ancor peggio, al potenziamento.

a cura di Simone Ariot

In qualità di referente all’alternanza scuola lavoro di un grande liceo del nord Italia, ma ancor prima in qualità di cittadino, mi sento di scrivere alcune righe in difesa dell’alternanza scuola lavoro. Non difendo necessariamente l’alternanza del modello italiano che, proprio per la sua giovane età, è ancora perfettibile, quanto l’idea di alternanza. Ho letto moltissime dichiarazioni di docenti contrari i quali ritengono che questa modalità didattica danneggi l’insegnamento, sia una perdita di tempo, rappresenti un problema nella quotidianità di studenti e insegnanti. Può esserlo, certamente, ma può essere anche il contrario. L’alternanza, prima di tutto, è un’occasione e come tale va progettata per evitare proprio quelle condizioni di improvvisazione che alla fine si traducono in un insuccesso e in una perdita di tempo. Nella mia scuola, su una quarantina di classi attualmente coinvolte, ce ne sono quattro/cinque il cui percorso si sta rivelando poco proficuo e non funzionale, ed è proprio osservando le dinamiche di queste classi che ci si può accorgere del perché. In quei casi si tratta di percorsi calati dall’alto, mancanza di disponibilità da parte dei colleghi nel cooperare per la progettazione, dinamiche relazionali all’interno del consiglio di classe che non facilitano la progettazione. L’alternanza, infatti, trattandosi di una metodologia didattica e non di un semplice stage, rappresenta un importante campo di prova per verificare alcune dinamiche che, meno esplicitamente, erano già presenti nella classe o nella scuola. Il problema è che molto spesso non le si riconoscono e, di conseguenza, non le si affrontano per modificarle o eliminarle. Ho sentito molte lamentele da parte di colleghi terrorizzati dall’idea di diventare tutor o referenti, in alcuni casi si trattava di paure fondate, perché effettivamente questi ruoli non sono alla portata di tutti e richiedono capacità e competenze che se i docenti sulla carta devono effettivamente possedere, finora in molti casi hanno potuto non sviluppare e non mettere in atto. Parliamo delle competenze relazionali, progettuali e organizzative.

Le competenze relazionali sono le prime che emergono in questa esperienza dell’alternanza scuola lavoro. Un insegnante tutor, ancora di più un referente di scuola, dovrebbe sapersi relazionare non solo con studenti, famiglie e colleghi, ma anche con il mondo là fuori, il mondo del lavoro. Molti docenti, è bene dirlo, negli anni si sono in parte emarginati dal mondo del lavoro diverso da quello della scuola, non solo a causa loro, ma anche delle condizioni non vantaggiose in cui hanno imparato a destreggiarsi. Lo scarso potere d’acquisto sicuramente non aiuta a sviluppare una relazionalità allargata, a trovarsi in situazioni di ‘networking’, a confrontarsi con la dimensione imprenditoriale. Ma la competenza relazionale è decisiva. Le aziende, le associazioni, i professionisti, bisogna saperli agganciare in modo convincente, non certamente chiedendo l’elemosina, ma proponendo un progetto che risulti sensato. Ho constatato numerose volte quanto vi siano due tipologie differenti di partner aziendali con cui sviluppare un percorso di alternanza. Le aziende che accettano e cercano studenti da impiegare a costo zero per un periodo di tempo, preferibilmente estivo, già concordato. Si è parlato di nuova schiavitù ed effettivamente vi sono molti casi in cui ciò si è verificato, almeno dalle testimonianze che sulle pagine dei quotidiani e non solo possiamo leggere. Si tratta di aziende semplici o iper-strutturate, alle quali non interessa l’ottica della co-progettazione del percorso. Bisogna però ammettere che queste aziende sono spesso prese d’assalto proprio dalla scuole, nell’ottica della creazione di un rapporto do ut des in cui il do è esercitato dalla scuola, intesa come offerta di studenti a cui far fare l’alternanza limitandosi alla certificazione delle ore, e il des è rappresentato dall’azienda, che accoglie gli studenti e consente la certificazione. In questi casi, è bene dirlo, non c’è co-progettazione, non ci sono incontri preventivi, non ci sono obiettivi fissati e controlli. Si tratta semplicemente di un espletamento burocratico, di mettere il timbro per certificare le ore. Ovvio che, in questo spirito, i ragazzi possono cogliere pochissimo dall’esperienza. Poi ci sono le aziende che credono nell’alternanza come azione utile a loro stessi e al sistema paese non nell’immediato, ma nel medio-lungo termine. Sono realtà con cui la relazione che si crea è fatta di vari step. Ci si studia a vicenda, ci si annusa potremmo dire, ma soprattutto ci si parla, per poi dare il via a un percorso di co-progettazione. La relazionalità non si ferma lì, va avanti anche nella fase centrale del percorso di alternanza, e nel migliore dei casi prosegue anche una volta terminata l’alternanza, magari per un nuovo percorso che coinvolge l’istituto negli anni successivi.

Le competenze progettuali sono significative per dare un senso all’esperienza, per poterle far assumere una valenza non solo didattica, ma anche pedagogica. Progettare significa partire dalle condizioni esistenti, della classe, dell’indirizzo di studio, del consiglio di classe. Per poi fissarsi un obiettivo didattico e capire come l’alternanza possa facilitarne il raggiungimento. Seguendo questo schema non sembra impossibile individuare un potenziale partner, e se ci si presenta con un progetto, è più facile che possa accoglierlo. Ovvio che le competenze prima spiegate, quelle relazionali, tornano importanti in questo momento. Con un bel progetto ma senza relazioni non si va da nessuna parte.

Le competenze organizzative infine sono quelle che ci consentono di realizzare il progetto. Serve flessibilità, velocità e dinamismo, ma anche in questo caso tornano utili le competenze relazionali. Va da sé che chi deve organizzare ha la necessità di confrontarsi frequentemente con i colleghi che, ricordiamocelo, dovrebbero supportare e sostenere l’azione del tutor interno e del referente, non ostacolarla come spesso avviene, essere in grado di rivedere il progetto attuando modifiche, se necessarie, e infine saper tradurre la parte pratica in teoria, soprattutto nel momento della valutazione finale.

Si tratta insomma di un lavoro complesso, ma non impossibile. Certamente, e questo è un elemento che dovrebbe far riflettere, sicuramente rappresenta una dimensione molto impegnativa, non risolvibile in poche ore di lavoro, e che di fatto è giusto valorizzare e valutare. Su questo aspetto mi sento d’essere molto critico. L’alternanza così gestita richiede tempo e risorse. Un buon tutor di classe sicuramente dovrà dedicare almeno un paio d’ore a settimana, mediamente. Ma un buon referente di scuola quanto tempo deve dedicare? Dalla mia esperienza le 20 ore settimanali sono un dato realistico, almeno nei primi due anni di attività. Dal terzo anno possono diminuire perché alcuni meccanismi sono ben rodati, ma di certo non meno di 10-12. Qui emerge quindi un problema. Quale docente sarà mai disposto a dedicare tutto questo tempo a un progetto pagato, nel migliore dei casi 3000 euro lordi l’anno? (poco più di 150 euro netti al mese). Per questo motivo molti referenti scolastici per l’alternanza sono docenti di potenziamento, che conservano 3-4-6 ore di lezione in classe e il resto del tempo possono dedicarlo al progetto. Ma non è sempre così, e non dev’esserlo. Significherebbe che all’interno di una scuola non viene scelta la persona più adatta a svolgere questo incarico, ma quella con più ore a disposizione. Razionale come scelta, ma inadeguata e inefficace. E allora torniamo sempre alla solita questione della valutazione dei docenti, del trattamento economico, della loro professionalità. Ora l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL) sta mandando in campo mille super tutor per l’alternanza, uno ogni cinque scuole, che dovrebbero aiutare le scuole a gestire il rapporto con le aziende. Saranno in gran parte giovani laureati in discipline umanistiche, con contratto a tempo determinato e forse alla prima esperienza professionale, e questo mi lascia molto perplesso. Siamo sicuri che si risolva così il problema? Non sarebbe stato il caso di formare in modo molto serio ed efficace i referenti, individuare in modo intelligente le buone pratiche per capire quali strategie sono state messe in campo? Ancora una volta si è sprecata un’occasione, e sulla base di una prassi che porta il governo a lanciare proposte prima ancora di verificare se esiste l’umus affinchè crescano, ci ritroviamo punto e a capo con un’affaire piuttosto complesso che non sembra trovare vie d’uscita felici.

Quello che mi chiedo, considerando che un docente prima di spiegare un argomento deve chiaramente conoscerlo, è perché questo ragionamento basilare non venga applicato all’alternanza. Come possiamo chiedere ai docenti, che nella maggior parte dei casi non conoscono un mondo del lavoro diverso da quello della scuola, di progettare l’alternanza? Non sarebbe forse più sensato cominciare a far fare l’alternanza proprio ai docenti? Siamo sicuri che non potrebbe trattarsi di un’esperienza fondamentale anche per aiutarli a comprendere se l’insegnamento è la loro effettiva vocazione?

 

Simone Ariot
è docente di italiano e latino al liceo Fogazzaro di Vicenza, dove è referente all’orientamento e all’alternanza scuola lavoro. Giornalista pubblicista, collaboratore di testate locali e nazionali, svolge l’attività di consulente aziendale nell’ambito della formazione e della comunicazione, occupandosi in particolare di  ideazione e organizzazione di percorsi di team building e sviluppo di piani editoriali. E’ laureato in lettere all’Università di Padova e in giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. E’ diplomato alla scuola italiana di life e corporate coaching.