Per un orientamento inclusivo e un lavoro dignitoso per tutti “… Purchè sia un buon lavoro”

A cura di Paolo Cacciari
Non ho particolari titoli scientifici per poter trattare il tema del lavoro. Ho solo una lunga frequentazione di un mondo un po’ particolare, quello dell’economia solidale (101 piccole rivoluzioni, Altreconomia, 2016). Una galassia molto sgranata e periferica, di poca consistenza rispetto al nocciolo duro dell’economia di mercato. “Economie Cenerentola”, le ha definite Tim Jackson nel suo Prosperità senza crescita. Imprese borderline, sempre sul punto di fallire o di essere assorbite dall’economia convenzionale, dei soldi e del debito, oggi dominante. Ma – a mio parere – gli attori, i protagonisti, i lavoratori che appartengono a questo mondo (di non facile catalogazione) esprimono esigenze e domande che vanno prese sul serio e che possono essere utili per tutti: studiosi, operatori, sindacati, decisori politici. Domande sul senso dello sforzo lavorativo, sulle ragioni della cooperazione produttiva e sul concetto stesso di economia. Sono convinto che rispondere alle aspettative di “buon lavoro” che vengono da chi opera nell’economia solidale  potrebbe risultare utile per trovare una via di uscita alla perdita di valore che sta subendo il “lavoro vivo”, concreto, umano nella nostra società. Una perdita di considerazione sociale, prima ancora che di peso economico. Uno slittamento sul piano dei valori, prima ancora che della rappresentanza sindacale e politica.
Cosa emerge dalle esperienze lavorative delle persone che cercano di impegnare le proprie energie nell’area dell’economia solidale? Non ci sono ricerche sistematiche sulle loro motivazioni soggettive (vedi: Lucia Bertell, lavoro eco autonomo, elèuthera 2016; AaVv, Economia solidale. Scenari e concetti per una transizione possibile, Asterios 2016; gli studi di Francesca Forno sui Gruppi di acquisto solidali). La mia impressione è che alla base di molte imprese sociali, in tutti i campi, vi sia una autentica domanda di qualità; una ricerca di lavoro che consenta di vivere senza dover subire troppe umiliazioni, senza dover rinunciare ai propri principi e stili di vita.
Romano Alquati, un esponente della vecchia guardia dell’operaismo di “Quaderni Rossi”, diceva che gli operai sono “uomini interi, non solo mani e stomaci”. Già Tolstoj in Resurrezione scriveva: “Per poter agire nella vita, tutti abbiamo bisogno di attribuire al nostro lavoro importanza e dignità”. Caillé nella Critica della ragione utilitaria ha scritto: “Gli uomini sono uomini prima di essere lavoratori e le società sono umane prima di essere macchine per produrre”.
Nella nostra società il lavoro è stretto nella morsa di una “duplice natura”, ben descritta da Marx: metà merce e metà vita. Allo stesso tempo, strumento per accedere ad un reddito e mezzo creatore di valori d’uso reali.
Non è facile, all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, cioè salariali, tenere assieme e conciliare l’ambivalenza della prestazione lavorativa. Il lavoro quando si dissocia dalla vita, quando subordina e comprime le soggettività, quando chiede ubbidienza totale… diventa coercizione e provoca disturbi della personalità, anaffettività, svuotamento interiore. Sintomi evidenti della “miseria psichica” che è la cifra della nostra società. Il Burn Out, sindrome da stress lavorativo, colpisce in Europa il 22% di chi ha un impiego, secondo una ricerca della Fondazione  Rodolfo Debenedetti. “Organizzare il lavoro in modo che perda ogni significato, diventando noioso, degradante o una tortura per i nervi del lavoratore sarebbe poco meno che criminale”, scriveva Friedrich Schumacher in Piccolo è bello. Ha giustamente annotato Maurizio Pittau, un economista che si occupa di Economia della felicità: “L’economia ha per lungo tempo trascurato le relazioni interpersonali. Se l’economia resta concettualmente ancorata ad un’idea di individuo per natura egoista rischia di perdere il contatto con dinamiche sociali molto importanti, come il movimento dell’economia sociale o civile, il funzionamento delle organizzazioni, o il rapporto reddito-felicità”.
Almeno nelle intenzioni e nei desideri (i risultati, poi, dipendono da tanti fattori), i miei amici che svolgono la loro attività nell’economia solidale tentano di superare l’ambivalenza del lavoro spostandosi sul lato del lavoro concreto produttore di valori d’uso. Interpretano il lavoro come impegno socialmente utile e pongono l’attenzione su tre direzioni:
a)    cercare di creare delle condizioni di autodeterminazione, autocontrollo, codeterminazione… nei modelli di conduzione dell’impresa. In una parola: tentare di alzare al massimo il tasso di democrazia nell’organizzazione dell’impresa recuperando l’idea originaria del mutualismo e del cooperativismo;
b)    cercare nel lavoro un modo per esprimere le proprie attitudini, aumentare le proprie competenze, completare la propria personalità nella gioia che dà il saper fare bene delle cose utili;
c)    cercare di rispondere a bisogni concreti delle persone. Ottenere risultati utili per il bene di quanti usufruiscono dei prodotti del lavoro. Molto spesso, invece, nella storia della cultura dei movimenti sindacali e operai, non si è tenuto conto di ciò. Già Sergio Bologna in un “Primo Maggio” del lontano 1987, denunciava “l’indifferenza dei lavoratori nei confronti dei valori d’uso da essi stessi prodotti”. Pane o bombe purché il salario sia adeguato.

Queste aspirazioni ad un lavoro diverso, soddisfacente e responsabile si possono cogliere in un infinito repertorio di esperienze spesso microscopiche, fragilissime, marginali… che però a me piace vedere come piante pioniere che crescono tra le macerie del sistema economico attuale e capaci di ricolonizzarlo creando una foresta ricca di biodiversità. Dovremmo pensare a multiattività in una  pluralità di forme economiche. Come dicono i latinoamericani dei movimenti dell’economia di liberazione popolare e dei commons (Manche, Zibechi, Esteva), si crea un tessuto di molteplici organizzazioni e ambiti di comunità che fanno società. Alberto Magnaghi, urbanista della associazione Società dei Territorialisti, descrive le attività dell’altra-economia come capaci di realizzare “spazi di separatezza, di autonomia, di sovranità alimentare ed energetica, territori liberi da Ogm, denuclearizzati, disinfestati dai concimi chimici, che cominciano a progettare il proprio futuro mettendosi in grado di produrselo”. In altre parole, l’impresa solidale non pensa solo a sé stessa, ma all’autosostenibilità economica dell’intera comunità in cui è inserita.
Stiamo parlando del lavoro di contadini che praticano agricoltura biologica, organica, biodinamica, permacoltura, sinergica. Lavori legati al cibi e all’alimentazione: trasformatori dei cereali in farine e in paste, di pomodori e verdure in conserve… Vignaioli e vinificatori, birrai artigianali, ristoratori… Lavori legati ai Gruppi di acquisto solidali e alla piccola distribuzione organizzata. Lavori di cura alle persone secondo modelli di welfare di prossimità che promuovono l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, l’assistenza, l’accompagnamento di migranti, l’istruzione e la formazione nelle scuole libertarie e parentali, le medicine naturali, le palestre popolari… L’economia carceraria. Lavori legati al commercio equo e solidale. Lavori legati al recupero, riutilizzo e riciclo delle merci a fine vita. Laboratori di rigenerazione dei computer e di promozione dei software liberi e aperti. Ciclofficine. Falegnamerie. Lavori legati alla bioedilizia, all’energia da fonti rinnovabili e sostenibili. Lavori legati ai beni culturali artistici che prevedono il recupero di immobili abbandonati, agenzie di viaggio per turismo di visitazione, guide, circuiti Wwofer, Wigwam… Lavori legati a sistemi di scambio non monetari, alla mutualità, al microcredito, alla finanza e alle assicurazioni etiche… Lavori professionali di consulenza, di informazione, di cura… Penso anche a qualche esperienza di fabbrica recuperata (vedi la RiMaflow di Tiezze sul Naviglio) e alle molte salvate grazie alla legge Marcora (49/1985 e successivi rifacimenti) per favorire il workers buy-out.
Si tratta di esperienze per di più puntuali e isolate, ma che tendono a mettersi in relazione e a fare reti. Il più delle volte attorno a interessi specifici di tipo professionale (ad esempio la Rete dei semi rurali che si occupa della conservazione e riproduzione di varietà antiche) o categoriale (ad esempio Aiab che organizza i produttori biologici) o di settore (le Botteghe del mondo e Altro Mercato che curano il marchio Fare Trade) o associative (penso all’Associazione nazionale delle Banche del tempo). Oppure si tratta di reti locali che organizzano i mercati dei prodotti contadini o i Distretti di economia solidale (penso alla Rete dell’economia solidale ed etica delle Marche che tiene le relazioni  tra 7 empori locali). Oppure, ancora, si tratta di reti che aggregano operatori economici per affinità ideale. Penso alle imprese dell’Economia di comunione ispirata da Chiara Lubich o alle imprese del Bene Comune ispirate da Christiana Felber.

E’ possibile trovare una definizione comune, capace di includere tutte queste diverse esperienze?
La organizzazione internazionale che coordina e rappresenta l’economia solidale si chiama RIPESS ed ha così definito il suo campo d’azione: “L’economia sociale solidale (ESS) è una alternativa al capitalismo e ai sistemi economici autoritari controllati dallo Stato. Nella ESS, la gente comune svolge un ruolo attivo per determinare il corso di tutte le dimensioni della vita umana: economica, sociale, culturale, politica e ambientale. La ESS esiste in tutti i settori dell’economia – produzione, finanza, distribuzione, scambi, consumo e governo (vedi il grafico più avanti). La ESS desidera fortemente trasformare il sistema sociale ed economico, che comprende i settori pubblici e quelli privati, così come il terzo settore, come si vedrà in maggior dettaglio più avanti. Nella ESS non si tratta soltanto di ridurre la povertà, ma di superare tutte le diseguaglianze, che pesano su tutte le classi sociali”.
Le Nazioni Unite hanno costituito una task force che ha prodotto un position paper: Social and Soplidarity Economy and the Challenge of Sustainable Development (2014). “SSE si riferisce alla produzione di beni e servizi da parte di un ampio spettro di organizzazioni e imprese che si sono date espliciti obiettivi sociali e spesso anche ambientali. Essi sono guidati da principi e pratiche di autogestione cooperativi, solidali, etiche e democratici. ESS include cooperative e altre forme di imprese sociali, gruppi di auto aiuto, organizzazioni comunitarie di base,a associazioni e lavoratori dell’economia informale, servizi ausiliari delle NGOs, strumenti di finanza solidale e ancora altro”.
Nel mondo dell’economia e della politica incomincia ad esserci una attenzione al mondo dell’economia solidale. In Brasile esiste un ministero adedicato. In Francia nel 2014 è stata approvata una legge. In Spagna il mondo della cooperazione ha una lunga tradizione. In Italia dopo il Trentino e l’Emila Romagna il Friuli Venezia Giulia ha approvato una legge regionale molto chiara e innovativa. Anche papa Bergoglio nella Laudato si’ ha dato molta importanza alle pratiche di solidarietà: “In seno alla società fiorisce un’innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune difendendo l’ambiente naturale e urbano (…) intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale”.

Dalle esperienze del lavoro nell’economia solidale possono venire delle risposte alle domande: come restituire valore e orgoglio ai lavoratori? Come ridare centralità al lavoro degno – che è qualcosa di più di un lavoro decente, minimamente retribuito e tutelato? Come intendere autenticamente e dare corso effettivo all’Art.1?
A me pare evidente che un’opera di civilizzazione attraverso il lavoro è semplicemente impossibile se si rimane all’interno di uno schema che attribuisce alla “forza lavoro” una funzione meramente strumentale come mezzo da impiegare al fine sovrano della produzione di merci. In una organizzazione socioeconomica dove conta di più il prodotto del lavoratore non vi potrà mai essere alcuna vera valorizzazione del lavoro. Bisogna quindi far uscire il lavoro da questa condizione di subordinazione. Con Marx, generazioni di socialisti, comunisti e anarchici hanno pensato che, dopo l’abolizione dello schiavismo e dei servi della gleba, sarebbe giunto un giorno in cui l’umanità si sarebbe liberata anche della schiavitù salariale.  Il riemerge di forme di lavoro servili, sottopagate, sempre più precarie… ci dicono che la strada da percorrere è ancora molto lunga.  Per salvare il lavoro umano dalla sua progressiva svalutazione, che giunge fino alla insignificanza e alla mortificazione nella disoccupazione, è necessario cambiare la concezione riduttiva del “lavoro a compenso”. Da prestazione individualizzata e spersonalizzata in cambio di una contropartita monetaria, ad attività personalmente soddisfacente, gratificante che permette di esprimere e impegnare il talento, la creatività, l’intelligenza, le capacità che ogni individuo possiede. Il lavoro libera, realizza, emancipa solo se è libero da ricatti, costrizioni, imposizioni. Il lavoro va concepito come completamento della personalità, come espressione del saper fare creativo di ogni individuo, tale da generare una soddisfazione intrinseca che si completa quando il proprio operato diventa utile anche agli altri. Il “lavoro per l’uomo”, quindi, come “atto di amore” verso sé stessi e gli altri (Simone Weil).
Il lavoro, dal punto di vista della società e della politica, va inteso, quindi, come l’energia creativa dell’umanità. Assieme alle risorse naturali, il lavoro è la base prima della ricchezza di una comunità. Così come il sole muove i cicli naturali vitali, così il lavoro mette in moto le immense potenzialità culturali del genere umano, quelle che servono alla trasformazione dell’ambiente. Il lavoro è il principale bene comune, il più prezioso patrimonio sociale a disposizione delle comunità umane per poter concretizzare le proprie esigenze, realizzare i propri progetti. Il primo compito di una intelligente organizzazione economica della cooperazione sociale, è quello di rendere effettuale questa potenzialità. Non farlo non è solo uno spreco assurdo, ma anche una violenta discriminazione verso coloro che ne vengono esclusi. L’utilizzo di questa energia vitale (la “piena occupazione o quasi”, nel gergo economico) non deve essere una risultante secondaria ed eventuale della combinazione nell’uso degli apparati tecnici e dei sistemi organizzativi produttivi, ma deve essere lo scopo stesso dell’organizzazione economica di una società umana. Non si deve lavorare per produrre merci (in numero sempre maggiore e a prezzi sempre minori e nel tempo più breve possibile), ma si devono produrre quei beni e servizi che servono ad impiegare utilmente il lavoro di tutti e di tutte.
In concreto. E’ necessario individuare dei percorsi capaci di far emergere il “lavoro vivo”, concreto, umano. Questi dovrebbero riguardare innanzitutto la migliore distribuzione di quel poco o tanto di lavoro retribuito che il mercato riesce a offrire. Il principio di base deve essere il riconoscimento della natura sociale del lavoro, sempre frutto di un coordinamento e di una collaborazione che coinvolge l’intero tessuto sociale, comprese le persone che ne sono escluse: l’“esercito di riserva”, i lavoratori a intermittenza, il lavoro on demand, precari di varie tipologie e coloro che sono addetti/e al lavoro domestico,  comunque e sempre a servizio e a disposizione di chi è impiegato nel lavoro “direttamente produttivo”. E’ quindi possibile immaginare che l’impiego del lavoro individuale (orario di lavoro) e il relativo risultato economico (il dividendo in forma di retribuzione monetaria) vengano distribuiti tra tutti i membri della società. Al pari dei “lavori di riproduzione”, di cura e di sussistenza, oggi assegnati in grandissima prevalenza alle donne.
Per quanto riguarda il lavoro retribuito si può agire in due modi: attraverso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro individuale e attraverso una redistribuzione solidale dei guadagni. Il principio deve essere quello della condivisione del valore (shared value) socialmente creato, così da trovare – ad una scala territoriale sovra-aziendale, comunitaria, regionale, nazionale –  un punto di riconciliazione tra il business aziendale e la sua utilità sociale, tra il profitto e l’interesse pubblico.
Bisogna essere consapevoli che le nuove organizzazioni del lavoro basate sulle tecnologie informatiche e telematiche tendono ad estendere le prestazioni lavorative ben al di là degli orari contrattuali predefiniti. Misurare e controllare l’applicazione degli orari per via legislativa (durata settimanale dell’orario di lavoro, accompagnata da una maggiorazione fiscale sul ricorso agli straordinari) è quindi una questione molto complicata, ma si può anche pensare di misurare l’intensità di occupazione delle singole imprese in rapporto ai fatturati e premiare fiscalmente le attività più labour intensive.
Così come bisogna essere consapevoli che il reddito di base minimo garantito  potrebbe essere molto costoso. I calcoli sono disparati e fantasiosi: si va da 300 MLD di Euro calcolati dal Corriere della Sera, ai 15 MLD della proposta di legge del Movimento 5 Stelle (780 Euro al mese). Teniamo però conto che il Jobs Act è costato 20 MLD di Euro ed ha creato poche centinaia di migliaia di posti di lavoro, peraltro volatili. Bisogna quindi pensare alla costituzione di un fondo per il finanziamento del reddito universale generalizzato e incondizionato (Basic Incom) a favore di tutti i membri operosi della società, occupati o no. Molti anni fa, ormai, André Gorz proponeva che il “reddito sociale garantito” dovesse essere pagato da “una imposta sugli incrementi di produttività legati alla robotica” (Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati e Boringhieri, 1992). Oggi questa stessa idea è stata riproposta anche da parte imprenditoriale (Bill Gate) e dal candidato socialista alle presidenziali francesi Hamon nella forma di una tassa sui robot dell’“industria 4.0” con un gettito equivalente alle tasse e ai contributi relativi al personale addetto rimpiazzato. La proposta è già stata respinta dall’Unione Europea. Ma il problema rimane: ci troviamo di fronte ad un capitalismo senza lavoro. Una crescita della produttività del sistema che non crea occupazione. Almeno al ritmo dei posti di lavoro che distrugge. La questione del finanziamento del reddito di cittadinanza incondizionato può essere visto attraverso la costituzione di un fondo/cassa contributivo di scopo di tipo solidale alimentato da tutte le imprese (in percentuale dei lavoratori occupati, degli extraprofitti e di altri parametri capaci di misurare la intensità tecnologica, oppure su serie imposte sulle royalties e sulle vendite di macchinari labour-saving) capace di sostenere un  “salario a vita” generalizzato, un reddito, appunto, che costituisce lo zoccolo minimo di sostentamento di ogni singola persona.
Svincolare la sussistenza economica delle popolazioni dal lavoro retribuito, rompere il tabù del vincolo del salario per vivere, diventa quindi  non solo un imperativo umanitario, ma una necessaria rivoluzione economica pratica e teorica. La gigantesca questione della “disoccupazione tecnologica” è tornata a pesare con l’avvento della “quarta rivoluzione industriale” che aumenta la produttività della megamacchiana produttiva a ritmi molto più alti dell’incremento dei posti di lavoro. In altri termini l’innovazione tecnologica distrugge più posti di lavoro di quanti non ne riesca a creare. Silvia Ribeiro (www.comune-info.net 12/3/2017) afferma che secondo alcuni studi OCSE la quantità di posti di lavoro perduti a seguito dell’applicazione di robotica e intelligenza artificiale variano dal 9 al 47%. E’ il BANG; la convergenza tra bit, atomi neuroni e geni che forma la Quarta rivoluzione industriale. E questa tendenza sembra di lungo periodo. A ciò si aggiunga che l’innovazione tecnologica è molto costosa: richiede investimenti sempre maggiori che i ricavi derivati non sono sempre sufficienti a ripagare (ROI troppo bassi). Così, non solo cala l’occupazione, ma non si allargano nemmeno la domanda e i mercati di sbocco. Da qui la palude della stagnazione, della recessione e della deflazione.

“Le politiche di redistribuzione dell’orario avrebbero il merito di liberare il tempo della riproduzione sociale dal dominio del mercato, rispondendo ad un bisogno di autonomia che si estende dai confini del lavoro produttivo a quello sociale”, ha scritto Simone Fana (Automazione e riduzione dell’orario di lavoro, “Sbilanciamoci!” 24 marzo 2017). La istituzione del reddito garantito di base incondizionato consentirebbe di liberare  energie delle persone che oggi sono mortificate nella inoccupazione, nel lavoro nero o marginalizzate nel lavoro servile domestico. Persone che potrebbero invece contribuire ad allargare la sfera delle attività di produzione di beni e servizi che il mercato è disinteressato a fornire. C’è un’ampia gamma di bisogni dimenticati o negati che invece potrebbero essere  soddisfatti dall’attività di individui operosi anche al di fuori di rapporti di lavoro formalizzati e retribuiti. Sciolti dai vincoli della sopravvivenza molte persone potrebbero dedicarsi ad attività di utilità per sé (autoformazione, autoproduzione…), per gli altri (lavori socialmente utili, di mutuo aiuto, di cura…), per la comunità intera (attività sociali, presa in cura di beni pubblici, volontariato…) che assumono una forma di produzione di beni e servizi non mercificati, praticamente senza dare corso a scambi monetari. L’allargamento della sfera delle attività “fuori mercato” (economie di sussistenza, dello scambio alla pari e della condivisione) permetterebbe alle comunità locali di  fare meno ricorso al mercato, quindi di avere meno bisogno di denaro ufficiale.

Si possono ipotizzare anche forme di lavoro volontario senza compenso monetario – come propone Gesualdi in Gratis è meglio. Tempo di lavoro e denaro: le persone più del mercato, emi 2016 – che il lavoro prestato nei vari settori dell’economia pubblica (quella cioè utile alla fornitura dei beni e dei servizi gestiti direttamente dallo stato in forma monopolistica o quasi)  sia generalizzato  (attraverso una sorta di “servizio civile obbligatorio” in lavori socialmente utili per “qualche giorno al mese, qualche settimana all’anno in un servizio o in una fabbrica pubblica”) e retribuito senza (o solo in parte) una contropartita salariale, ma con l’accesso gratuito ai servizi pubblici. Anche in questo caso si ridurrebbe il bisogno di mezzi di pagamento monetari ufficiali. Anche l’economista Domenico De Masi propone – come forma di lotta e di pressione, una sorta di sciopero alla rovescia – che i giovani disoccupati offrano il loro lavoro gratuitamente, così da costringere il mercato del lavoro strutturato a prenderli in considerazione e a inglobarli.
Un buon lavoro a tutte e a tutti!